Sarà così fuori moda cominciare con Marx?
«La borghesia non può esistere se non a patto di rivoluzionare
incessantemente gli strumenti di lavoro, vale a dire il modo di produzione, e
quindi tutti i rapporti sociali. La conservazione del pre-esistente modo di
produzione era, invece, la condizione basilare di esistenza di tutte le classi
produttive dell’industria delle epoche anteriori. Questo continuo
rivoluzionamento dei modi di produzione, questo costante scuotimento di tutto
il sistema sociale, questa agitazione perpetua e questa permanente mancanza di
sicurezza, distinguono l’epoca borghese da tutte quelle che l’hanno preceduta.
Tutti i tradizionali e irrigiditi rapporti sociali, con il loro corollario di
credenze e venerati pregiudizi, si dissolvono; e quelli che li sostituiscono
diventano antiquati ancor prima di cristallizzarsi. Tutto ciò che era solido e
stabile viene scosso, tutto ciò che era sacro viene profanato: costringendo,
finalmente, gli uomini a considerare le loro condizioni di esistenza e i loro
rapporti reciproci con occhi disincantati»(K.Marx e F. Engels, Manifesto del
Partito comunista, 1848).
E sarà fuori luogo proseguire con l’esordio di Leone
XIII nella Rerum Novarum?
1. L’ardente brama
di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva
naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia
sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi
dell’industria, le mutate relazioni tra padroni e operai, l’essersi accumulata
la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle
proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro
più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi,
hanno fatto scoppiare il conflitto. Il quale è di tale e tanta gravità che
tiene sospesi gli animi in trepida aspettazione e affatica l’ingegno dei dotti,
i congressi dei sapienti, le assemblee popolari, le deliberazioni dei legislatori,
i consigli dei principi, tanto che oggi non vi è questione che maggiormente
interessi il mondo. Pertanto, venerabili fratelli, ciò che altre volte facemmo
a bene della Chiesa e a comune salvezza con le nostre lettere encicliche sui
Poteri pubblici, la Libertà umana, la Costituzione cristiana degli Stati, ed
altri simili argomenti che ci parvero opportuni ad abbattere errori funesti, la
medesima cosa crediamo di dover fare adesso per gli stessi motivi sulla
questione operaia. Trattammo già questa materia, come ce ne venne l’occasione
più di una volta: ma la coscienza dell’apostolico nostro ministro ci muove a
trattarla ora, di proposito e in pieno, al fine di mettere in rilievo i
principi con cui, secondo giustizia ed equità, si deve risolvere la questione.
Questione difficile e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa è segnare i
precisi confini nelle relazioni tra proprietari e proletari, tra capitale e
lavoro; pericolosa perché uomini turbolenti ed astuti si sforzano ovunque di
falsare i giudizi e volgere la questione stessa a perturbamento dei
popoli.
2. Comunque sia,
è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema necessità venire in
aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la
maggior parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell’uomo. Poiché,
soppresse nel secolo passato le corporazioni di arte e mestieri, senza nulla
sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi
venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che poco a poco gli
operai rimanessero soli e indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di
una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un’usura divoratrice che, sebbene
condannata tante volte dalla Chiesa, continua lo stesso, sotto altro colore, a
causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del
commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto
all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco meno che servile (1891).
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