giovedì 29 marzo 2012

Telecom, truffa sim card: rivedere la legge


da: la Repubblica

L’affare Telecom e la legge da rifare
di Alessandro De Nicola

In altri tempi avrebbe fatto molto più scalpore: 99 persone, tra cui un amministratore delegato e altri 14 dipendenti di Telecom, indagati per truffa e la stessa società raggiunta da un avviso di garanzia quale beneficiaria di profitti illeciti. Una cosa inaudita; eppure salvo qualche asciutto articolo, la faccenda non sembra appassionare più di tanto, né Telecom stessa sembra troppo preoccupata. Vediamo i fatti. I PM di Milano stanno investigando su una serie di reati, tra cui associazione a delinquere e ricettazione, nell’ambito di una mega truffa relativa alle sim card. L’ipotesi accusatoria è che per ricevere dei bonus, tra il 2001 e il 2008 siano state attivate milioni di sim card del cosiddetto "canale etnico" falsificando documenti a persone inesistenti o del tutto ignare. Quel che è peggio è che gli agenti Telecom rivendevano a prezzi maggiorati le carte a persone che non avevano interesse ad apparire come intestatari o addirittura che le utilizzavano per compiere delitti di carattere informatico. Di tutto questo (presunto) losco giro, Telecom aveva comunque un vantaggio, sia perché aumentava la propria quota di mercato sia perché comunque veniva generato del traffico telefonico e ciò avrebbe portato nelle casse della società profitti per 231 milioni. Ecco perché la compagnia telefonica ha ricevuto un avviso di garanzia ai sensi della legge 231: non avrebbe avuto un adeguato modello di controllo né esercitato la necessaria sorveglianza sui propri dipendenti. Telecom ha reagito indignata: ha specificato che l’amministratore delegato è iscritto nel registro degli indagati
solo in quanto rappresentante di legale della società (vero, anche la procura ammette che si tratta di un atto dovuto) e che essa stessa aveva presentato denunciaquerela, sospeso i dipendenti sospetti, informato il mercato dello sviluppo delle proprie inchieste interne nella relazione di bilancio. Insomma, la compagnia si sente parte lesa e ciononostante mazziata, come capita ad alcuni sfortunati mariti.

La giustizia farà il suo corso e vedremo come andrà a finire. Peraltro, la vicenda assume contorni che vanno al di là del singolo pur eclatante caso. Infatti, periodicamente ci si interroga se la legge 231 del 2001 non debba essere rivista per correggerne alcuni difetti. La norma interessa tutte le imprese, in quanto ne stabilisce una responsabilità quasi oggettiva nel caso in cui dipendenti o amministratori commettano un reato che è nell'interesse dell'azienda. Tipico esempio, la corruzione di un pubblico funzionario per aggiudicarsi un appalto. La società evita di essere sanzionata se dimostra di aver adottato un modello organizzativo efficace e in grado di prevenire i reati della stessa specie di quelli commessi e se ha vigilato in modo sufficiente anche attraverso l'istituzione di un apposito organismo di vigilanza. Le pene sono severe: si va da sanzioni pecuniarie pesantissime all'interdizione dell'attività di impresa o alla nomina di un commissario.
La legge prevede, peraltro, sconti di pena per chi prima del dibattimento di primo grado restituisce il maltolto, si adopera per attenuare le conseguenze dei crimini perpetrati e aggiusta il modello organizzativo. L'impianto normativo non è insensato: poiché nei delitti dei colletti bianchi chi si avvantaggia è spesso la società, è ragionevole che essa sia ritenuta responsabile. Inoltre è anche efficiente che sia l'impresa stessa ad approntare gli strumenti di prevenzione in quanto è il soggetto meglio posizionato per farlo.

Tuttavia ci sono un po’ di aspetti della legge che rischiano di distruggere ricchezza o addirittura di avere effetti disincentivanti della trasparenza. Il primo punto è quello che emergerebbe dalla vicenda Telecom. Perché l'impresa dovrebbe attivarsi a scovare e denunciare i suoi dipendenti sospetti di furfanteria se poi, ben che vada sarà sanzionata con meno severità, in ogni caso dovrà sopportare i costi, i tempi e la cattiva pubblicità di un processo penale e se va male beccarsi una pesante punizione? Se si concede una quasi impunità ai pentiti di mafia, sembrerebbe ragionevole garantire l'impunità a chi va di sua spontanea volontà dai PM e si impegna a restituire qualsiasi somma illecitamente percepita grazie all'azione truffaldina dei dipendenti infedeli. È una questione di efficienza economica: si riducono enormemente i costi dell'accertamento del reato e si incentivano i vertici aziendali all'onestà.
Altra questione che preoccupa molto le imprese è la possibilità per il giudice di applicare una sanzione che incida sull'operatività dell'azienda (interdittiva) anche in via cautelare, vale a dire mentre le indagini sono ancora in corso. Nel corso dell'inchiesta sulla "frode carosello" fu chiesto ad esempio il commissariamento (classico provvedimento interdittivo) di Fastweb, poi faticosamente evitato. In quel caso, avere un amministratore giudiziario alla testa di una società necessariamente dinamica e costretta a muoversi velocemente sul mercato, avrebbe voluto dire rovinarne il conto economico, distruggendo ricchezza e quindi posti di lavoro nonché indebolire l'assetto concorrenziale del mercato. In poche parole, le sanzioni devono avere una funzione dissuasiva che non può essere aliena da un'analisi costibenefici. Gli interventi sulla 231 sono stati finora episodici se non bizzarri: ad esempio, ribadire per legge che il collegio sindacale può svolgere il ruolo di organismo di vigilanza quando ciò non era affatto proibito, è inutile. Dannoso se si pensa che unanimemente si riteneva che il collegio sindacale non era adatto a questo ruolo. Un anno di tempo è più che sufficiente per un governo e un ministro della giustizia tecnici per riformare una delle branche del diritto penale commerciale ormai diventata importantissima per le imprese e che, se mal utilizzata, è potenzialmente uno di quei tanti ostacoli che tengono lontani gli investitori stranieri dal nostro paese.
adenicola@adamsmith.it

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