la
Repubblica – 16 marzo 2012
L’altra
sera guardavo un programma tivù in compagnia di un amico molto più giovane di
me, e molto interconnesso. Quasi ogni minuto, dunque quasi in diretta, lui
leggeva (e mi leggeva) la gragnola di commenti su Twitter. Più ancora della
violenza verbale, e della sommarietà dei giudizi (si sa, lo spazio è quello che
è), mi ha colpito la loro assoluta drasticità: il conduttore era per alcuni un
genio, per altri un coglione totale, e tra i due “insiemi”, quello pro e quello
contro, non esisteva un territorio intermedio. Era come se il mezzo (che mai
come in questo caso è davvero il messaggio) generasse un linguaggio totalmente
binario, o X o Y, o tesi o antitesi. Nessuna sintesi possibile, nessuna sfumatura,
zero possibilità che dal cozzo dei “mi piace” e “non mi piace” scaturisse una
variante dialettica, qualcosa che sposta il discorso in avanti, schiodandolo
dal puerile scontro tra slogan eccitati e frasette monche.
Poiché
non è data cultura senza dialettica, né ragione senza fatica di capire, la
speranza è che quel medium sia, specie per i ragazzi, solo un passatempo
ludico, come era per le generazioni precedenti il telefono senza fili. E che
sia altrove, lontano da quel cicaleccio impotente, che si impara a leggere e a
scrivere. Dovessi twittare il concetto, direi: Twitter mi a schifo. Fortuna che
non twitto…
Nessun commento:
Posta un commento