da: la Repubblica
Il romanzo di piazza Fontana ma il finale bipartisan
non regge
La storia secondo il testimone oculare Giordana
di Curzio Maltese
Quel pomeriggio
del 12 dicembre 1969 che ha cambiato per sempre l’Italia c’era anche Marco
Tullio Giordana in piazza Fontana, uno dei tanti studenti sul tram che porta
alla Statale. Un boato, i vetri saltati, i biglietti per aria come coriandoli e
la vita di tutti i giorni precipitata in un secondo nell’incubo. La scena
autobiografica del tram è per paradosso la più genialmente visionaria di Romanzo di una strage. Soltanto Leone, Coppola
o Scorsese sarebbero riusciti in una sola immagine a racchiudere i significati
di un evento epocale.
Romanzo di una strage è uno dei rari
film da vedere per poterne discutere. Da discutere in effetti c’è molto. Non il
talento dell’autore di La meglio gioventù
e de I cento passi, due fra i film
italiani più belli degli ultimi decenni. Tanto meno la prova di un cast
strepitoso che raccoglie le meglio gioventù di tre generazioni, da Omero
Antonutti nella parte di Saragat, a Favino e Mastrandea (Pinelli e il
commissario Calabresi), a Gifuni e Lo Cascio (Aldo Moro e il giudice Paolillo),
fino ai giovani e sorprendenti Freda e Ventura, Giorgio Marchesi e Denis
Fasolo.
Quello che si può
discutere è la scrittura di Romanzo di una
strage. Ci voleva coraggio per fare a distanza di quarant’anni il primo
film su piazza Fontana ed è indubbio che Giordana e gli sceneggiatori Rulli e
Petraglia ne abbiano avuto. Ma forse ne occorreva una dose supplementare per
affrontare un vero viaggio negli orrori dell’eterna guerra civile italiana. Il
film è piuttosto legato all’attualità della riflessione politica. Per dirla con
Mario Calabresi, bravo collega e figlio del commissario, è un’opera «sulla linea
del presidente Napolitano,
che si è impegnato a restituire umanità alle
persone, liberandole dalla condizione di simboli».
Calabresi poi
lamenta che a suo padre non sia stata restituita abbastanza e troppa invece ai
nemici, censurando la campagna infame e assassina di Lotta Continua. Qualcuno obietterà che il dolente, solitario e
candido commissario Calabresi di Valerio Mastandrea non assomiglia allo stesso
che fece incarcerare per mesi senza prova decine di anarchici e sottopose
Pinelli a un interrogatorio feroce e illegale, concluso con la morte di un
cittadino innocente.
Ma alla fine Romanzo di una strage è un film molto
personale di un testimone oculare d’eccezione, non un’inchiesta. Quelli sono il
Calabresi e il Pinelli di Marco Tullio Giordana, non un’impossibile verità
umana sui personaggi reali. Dove invece il film lascia perplessi è
nell’estendere il mistero ai fatti storici. Se è vero che i colpevoli sono
rimasti impuniti e i processi si sono conclusi con la vergognosa richiesta di
spese ai parenti delle vittime, è falso però che non si siano chiarite le
responsabilità. A mettere le bombe sono stati gli estremisti di destra, con la
regia dei servizi segreti italiani e americani, in vista di un golpe fascista
che si sarebbe realizzato se la sinistra avesse vinto le elezioni, come avvenne
poi nel Cile di Allende. Nessun mistero, nessuna «doppia pista» bipartisan, a
cavallo fra anarchici e neo fascisti, come si ipotizza nel finale del film. Sostenere
questa tesi non serve a pacificare gli animi, com’è forse nelle intenzioni di
Rulli e Petraglia, ma soltanto a spargere un inaccettabile perdonismo generale.
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