"Romanzo di una strage" il cuore oscuro
d'Italia
Il film di Giordana su Piazza Fontana: "C'è
ancora da indagare"
di Fulvia Caprara
In una delle prime
scene di Romanzo di una strage, il film di Marco Tullio Giordana che
ricostruisce la storia dell’attentato di Piazza Fontana, il 12 dicembre 1969,
nel centro di Milano, a due passi dal Duomo, c’è un’immagine di vita casalinga
che fa sorridere. Un giovane commissario di Polizia (Valerio Mastandrea) segue
le indicazioni della moglie incinta (Laura Chiatti) per attaccare un quadro al
muro, un po’ più su, un po’ più giù, fino al momento in cui squilla il telefono
e lui ha appena invocato la necessità di prendere una decisione. E’ uno
scampolo di normalità, prima che tutto cambi, irrimediabilmente, per sempre:
«Ho la sensazione - dice Pierfrancesco Favino che interpreta l’anarchico
Giuseppe Pinelli - che Piazza Fontana abbia provocato in Italia un tipo di
shock analogo a quello causato in Usa dall’11 settembre. Fino ad allora gli
italiani avevano fiducia nella politica, credevano in maniera pura, quasi
ingenua, nella democrazia, dopo, tutto si è incrinato».
Scritto dal regista con Stefano Rulli e Sandro Petraglia, il film (in sala da venerdì) ricostruisce le tappe di questo brusco risveglio, dalle indagini sulla strage, all’inizio totalmente orientate verso la pista anarchica, alla morte di Pinelli, precipitato dalla finestra dell’ufficio di Calabresi, dopo tre giorni di interrogatorio e digiuno, la notte del 15 dicembre. Il commissario non era in quella stanza, ma i maldestri tentativi della Questura di tacitare la vicenda,
finiscono per spingerlo al centro della trama dei sospetti, trasformandolo
nell’oggetto di una violenta campagna diffamatoria che, scrive il regista, «lo
indicava come il vero responsabile della “morte accidentale” di Pinelli,
promettendogli la “vendetta del proletariato”». Isolato, lucido, tenace,
Calabresi decide di querelare il giornale Lotta Continua, che l’accusa di aver
defenestrato Pinelli, e andare avanti nelle indagini, scavando dietro malafede
e verità pilotate, sfidando il destino già segnato di vittima sacrificale.
Sulle tracce della «pista veneta» scopre «un traffico di armi ed esplosivi Nato
dalla Germania all’Italia, che rifornisce i movimenti ustascia croati e le
cellule eversive neo-naziste italiane». Una sola voce, nelle stanze della
politica, quella del Ministro degli Esteri Aldo Moro (Fabrizio Gifuni), coincide
con il nocciolo delle sue indagini, indicando nei «gruppi neonazisti veneti i
responsabili della strage, e nella pista russa un evidente depistaggio dei
servizi segreti». Il Presidente della Repubblica Saragat, scioccato dalle
rivelazioni, si sente sotto accusa, dichiara la sua estraneità a qualunque
oscura manovra, intanto, sul traliccio di Segrate, salta in aria Giangiacomo
Feltrinelli, l’editore di sinistra, dilaniato dallo scoppio di un ordigno.
Ancora sangue, ancora misteri, ancora odio.Scritto dal regista con Stefano Rulli e Sandro Petraglia, il film (in sala da venerdì) ricostruisce le tappe di questo brusco risveglio, dalle indagini sulla strage, all’inizio totalmente orientate verso la pista anarchica, alla morte di Pinelli, precipitato dalla finestra dell’ufficio di Calabresi, dopo tre giorni di interrogatorio e digiuno, la notte del 15 dicembre. Il commissario non era in quella stanza, ma i maldestri tentativi della Questura di tacitare la vicenda,
Asciutto, rigoroso, privo di tentazioni retoriche, Romanzo di una strage corre verso il finale, secco come lo sparo che il 17 maggio 1972 spezzò la vita del commissario Calabresi. Prima dell’ultima sequenza, con i piedi dei passanti che si affollano accanto al cadavere, c’è un altro duetto con la moglie, il ritorno in casa per cambiare la cravatta, da rosa a bianca, un minuscolo brandello di quotidianità: «Non sono entrato in contatto con la famiglia Calabresi - dice Mastandrea - un po’ per pudore, un po’ perchè il film, di Calabresi, mette in luce soprattutto il profilo pubblico. E’ stato un lavoro complesso, il più difficile da quando faccio questo mestiere».
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