L'addio di Fossati: "Non ho paura della
nostalgia"
Dopo 43 anni di concerti stasera a Milano l'ultimo
show "Basta con la routine di musica e idee, mi affatica”
di Marinella Venegoni
La crisi economica
si è insinuata anche nei negozi del cuore. Prima è stata annunciata la
contrazione di produzione di Vasco Rossi, e stasera, al teatro Strehler, Ivano
Fossati tira invece giù decisamente le serrande, dopo 43 anni di onorata
attività cominciata quand’era un ragazzotto, nel 1969. Una decisione lungamente
annunciata, e spiegata con insolita generosità dal cantautore genovese che ora,
comprensibilmente, non ne può più e volentieri parla d’altro. Di sé, del suo
carattere e perfino delle rose che non colse. Da domani, saremo già ai ricordi:
esce Pensiero stupendo , album che raccoglie le sue canzoni cantate da
colleghi, da Mia Martini a Loredana Berté, da De André a Zucchero, dalla
Pausini a Ferro e Patty Pravo; e l’ultimo concerto di stasera diventerà un DVD,
per placare coloro che non si rassegnano, chiudere le celebrazioni e pensare a
qualcos’altro, o forse a niente.
Gli aggettivi che più l’hanno descritta in tanti anni sono stati "ritroso" e "appartato". Ci si riconosce?
«Una parte di vero la riconosco, sono sempre stato restio a far apparire qualcos’altro che non fosse il mio mestiere, e specialmente negli ultimi tempi ho sempre difeso la mia vita al di fuori della musica, e con un certo
Che cosa l’ha più urtata nell’ambiente della musica?
«La routine mi ha
spesso affaticato. La routine delle idee, fare sempre le stesse cose. La musica
ha una direzione sola, devi progredire e non puoi fare altro. Intorno a te,
invece, c’è sempre la solita roba. Quel che si faceva nei Settanta si fa ancora
oggi, a dispetto delle tecnologie. C’è mancanza di idee e proposte».
Che cosa le mancherà?
Che cosa le mancherà?
«Mi verrebbe da rispondere
niente perché sono convinto che solo una parte di queste cose finisce: la
frequentazione e fare i miei dischi. La musica mia di sicuro no, il rapporto
con le città dove ho suonato no, dunque non ho timori. Finisce la
rappresentazione, che è solo una parte».
Dopo 43 anni di militanza musicale, lei resta l’unico non acchiappabile nemmeno attraverso i familiari, cioè la sua compagna Mercedes Martini e suo figlio Claudio. E da domani il suo silenzio sarà ancora più fragoroso.
«Mio figlio
Claudio e io, è come se non avessimo un cellulare. Mercedes è la più collegata.
Ma anche lei non è una che esagera. Per noi la comunicazione non esiste da
tanti anni. Non dico che voglio restare isolato, ma non mi piace passar le
giornate al telefono. La battuta più bella sul "Ti cerco e non ti
trovo" è di Bernardo Lanzetti: "Ivano è difficile trovarlo anche
quando lui ha bisogno di te". Neanche mia madre a volte mi trova».
Il suo rapporto con Fabrizio De André. Quando uscì «Anime Salve» nel ‘96, scritto da entrambi, si disse che non foste entrati in sintonia. Quel disco fu considerato di De André. La vera storia?
Il suo rapporto con Fabrizio De André. Quando uscì «Anime Salve» nel ‘96, scritto da entrambi, si disse che non foste entrati in sintonia. Quel disco fu considerato di De André. La vera storia?
«C’è del vero.
Eravamo partiti con l’idea di fare un lavoro completamente insieme, e finché
c’è stata la fase di scrittura nella cascina dell’Alessandrino, siamo andati
d’amore e d’accordo. Quando poi si è pensato a come realizzarlo, io tiravo in
direzione quasi opposta a quella di Fabrizio: lui voleva ancora elementi
mediterranei come per "Creuza de Ma", io pensavo a un disco più
elettrico. Un giorno con Fabrizio ci siamo chiariti, e abbiamo deciso che era
meglio che diventasse almeno un gran bel disco di De André. Ma fra lui e me c’è
sempre stato un rapporto che dire civile è poco».
Perché non ha partecipato all’album recente in cui le canzoni di De André venivano rifatte da un’orchestra sinfonica?
«L’ho saputo molto tardi».
Si dice che lei si vergogni di «Pensiero Stupendo»...
«Ma no, sta
proprio uscendo una compilation intitolata così, è una canzone che mi è molto
cara. Ma ci sono tantissime mie canzoni che non mi piacciono, soprattutto le
prime. Le belle arrivano al 10%, il resto è come se fossero prove per belle
canzoni».
Si è mai pentito di aver dato nel 1996 "Canzone popolare" come sigla all’Ulivo, e ha fiducia nel futuro, e nella politica come la vediamo oggi?
«Per un lungo
periodo non l’ho più cantata, "Canzone popolare". Sapeva di politica
e io non ho mai fatto concerti politici. Pentito? No, però oggi consiglierei a
un collega più giovane di non farlo. La politica oggi ha bisogno di buone idee
e non di canzoni: rischi di farti fraintendere. E poi, voglio tenermi il futuro
che è di tutti noi, non me ne voglio ritagliare uno privilegiato. Oggi in auto
ho visto un cartello, "C’è sempre un futuro", e ho pensato che non
vuole dire niente, il punto è sapere se ci sarà un buon futuro, se c’è qualcuno
in grado di darcelo o se rimangono solo parole. Dopo 43 anni di lavoro, dico
che ho fiducia nei fatti».
Avrebbe chiamato «Decadancing» il suo ultimo album, se fosse uscito di recente e non durante il governo Berlusconi?
«Probabilmente sì.
La decadenza cui mi riferisco tocca come minimo l’Europa intera, anche se certo
stavo pensando al nostro Paese».
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