da: la Repubblica - 10 marzo 2012
La politica estera italiana e il teatrino dell’ignavia
Non sorprende che Cameron abbia deciso il blitz nigeriano senza
consultare il governo italiano.
Londra non riconosce a Roma il ruolo di alleato paritario, nè Roma si fa rispettare come tale. Preferiamo vivere in un mondo ideale pur di non prenderci le nostre responsabilità.
Londra non riconosce a Roma il ruolo di alleato paritario, nè Roma si fa rispettare come tale. Preferiamo vivere in un mondo ideale pur di non prenderci le nostre responsabilità.
di Lucio Caracciolo
Non c'è nulla di sorprendente, tanto meno di
inspiegabile, nella decisione britannica di non consultare il governo italiano prima
di lanciare il raid in Nigeria nord-occidentale, finito con l'uccisione degli
ostaggi Chris McManus e Franco Lamolinara.
Sorprendente sarebbe stato il contrario, con Cameron a chiedere a Monti se pensasse che il blitz - eufemismo
per battaglia campale di alcune ore - sarebbe stato necessario. Delegando
eventualmente i responsabili della Difesa a definirne i dettagli. Ciò sarebbe
avvenuto se Londra riconoscesse a Roma il rango di alleato paritario. E se Roma
si facesse rispettare per tale.
Nella storia delle relazioni italo-britanniche, dal Risorgimento in avanti, siamo stati amici o nemici. Mai però sullo stesso piano.
Questione di rapporti di forza. Fondati sulla psicologia collettiva, sugli
stereotipi del “carattere nazionale”, più che su fattori oggettivi, misurabili.
Tanto che quando, negli anni Ottanta, il volume della nostra economia superò
quello britannico, Londra reagì con piccata rimozione: non poteva che trattarsi
di errore statistico.
Se sotto il profilo economico e demografico Italia
e Gran Bretagna possono essere grosso modo
assegnate alla medesima categoria, quando il gioco si fa duro la contabilità
cambia. Non è solo questione di potenza militare, di intelligence, di
proiezione della forza - tutti campi in cui Londra, pur declinante, ci
sopravanza da sempre. Valgono soprattutto la cultura strategica, la tradizione
militare.
Gli inglesi amano esibire la forza, anche a costo di rendersi
tragicamente ridicoli, come nel caso nigeriano. A noi non
salterebbe in mente di spedire una squadra navale per i sette mari onde
preservare
la sovranità su quattro scogli, come nell'epopea delle Falklands. Se
ci tirano addosso qualcosa, come Gheddafi a Lampedusa, preferiamo far finta di
nulla.
Per sicurezza, baciamo l'anello. E se proprio ci capita di far la guerra, dai Balcani all'Afghanistan o
alla Libia, non l'ammettiamo neanche a noi stessi. I nostri soldati uccidono e
vengono uccisi, alcuni eroi vengono decorati. Ma come fossero pompieri, perché
sempre operatori di pace sono.
Italia e Gran Bretagna hanno difficoltà a
intendersi in tempi di ordinaria amministrazione. Se poi la parola passa alle armi, il dialogo è fra sordi. Certo, siamo
tutti soci della Nato. In assenza del Nemico contro cui forgiammo
l'asse transatlantico, ognuno si sente però libero di interpretare a suo
modo questa strana “alleanza”. Lo abbiamo visto di recente nella guerra di
Libia, pensata e confezionata a Parigi e a Londra. Lo vediamo confermato nello
pseudo-blitz britannico-nigeriano, che sembra tratto da un manuale d'età
coloniale.
Non ci stiamo facendo mancare la consueta cacofonia
politichese tra ciò che resta dei partiti
nostrani. Dopo tre mesi in cui ci si è dovuti concentrare su urgentissimi
affari concreti, è naturale che i dichiaratori di professione non si lascino
sfuggire tanta occasione. Costoro attribuiscono l'affronto britannico
all'insipienza di questo o quel ministro, se non del governo tutto. E ci
assicurano che qualora fossero stati loro su quelle poltrone, non avremmo
subìto lo schiaffo di Londra.
Con il dovuto rispetto per l'onorevole La Russa, la cui competenza in materia militare è fuori discussione, e per i
suoi esimi colleghi pidiellini o leghisti, temiamo non sia così. Questo
governo ha le sue responsabilità nel caso nigeriano: si è fatto giocare.
Ne ha molte di più nel caso indiano, con
i nostri marò in mano alla magistratura locale per effetto delle negligenze
in serie prodotte da apparati di sicurezza e diplomatici che stentano a
comunicare fra loro né brillano per spirito d'iniziativa. Se vi sono colpe, pur
solo di omissione, vanno individuate e i responsabili puniti. Dubitiamo che ciò
accada: la vicenda del nostro console ad Osaka, rockettaro neonazista tuttora
impunito, ci ricorda quanto possano le corporazioni quando sentono minacciati i
loro privilegi.
Un passo avanti lo faremo quando cesseremo d'inventarci un mondo
ideale, in cui vige il diritto internazionale,
gli indiani valgono i somali, gli “alleati” agiscono di concerto. In cui gli
Stati non battono moneta ma la cogestiscono in armonia, né sparano, perché
siamo nell'èra della globalizzazione. In cui le frontiere non dividono ma
affratellano. In cui gli europei lavorano gli uni per gli altri perché insomma
siamo tutti europei. In cui noi italiani siamo concordemente amati perché brava
gente che non fa la guerra nemmeno quando la fa, distribuendo equamente
caramelle e pallottole. In cui per sentirci grandi ci aggrappiamo alla tavola dei Grandi,
pronti ad apparecchiarla e sparecchiarla pur di esserci, in quella stanza e
su quella sedia, non importa se nell'altrui indifferenza.
Nessuno ci impedirà di crogiolarci nel comodo
teatrino che abbiamo allestito a misura della nostra
ignavia. E di continuare a sorprendere i detrattori per la nostra abilità,
una volta toccato l'orlo del baratro, di improvvisare un'acrobazia in extremis,
finché non ci spezzeremo l'osso del collo. Produrremo di certo altri eroi,
della cifra di Falcone o di Calipari. Tutto pur di non scendere a patti con la
realtà. E con le responsabilità che ne derivano.
Davvero pensiamo di poterle sempre addossare a
Mamma America o alla mitica Europa? D'accordo. Ma
almeno evitiamo di sorprenderci.
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