da: Il Fatto Quotidiano
Come ciclicamente gli accade, da quando è
un personaggio pubblico, cioè esattamente da vent’anni, Antonio Di Pietro viene
dato per morto. Politicamente, s’intende. Gli capitò nel ’94, quando dovette
dimettersi da pm per i ricatti della banda B. Poi nel ‘95, quando subì sei
processi a Brescia per una trentina di capi d’imputazione (sempre prosciolto).
Poi nel ‘96 quando si dimise da ministro per le calunnie sull’affaire Pacini
Battaglia-D’Adamo. Poi nel 2001, quando la neonata Idv fu estromessa dal
centrosinistra e per qualche decimale restò fuori dal Parlamento. Poi ancora
quando il figlio Cristiano finì nei guai nell’inchiesta Romeo a Napoli; quando
i suoi De Gregorio, Scilipoti e Razzi passarono a miglior partito; quando
alcuni ex dipietristi rancorosi lo denunciarono per presunti abusi sui rimborsi
elettorali e sull’acquisto di immobili; quando una campagna di stampa insinuò
chissà quale retroscena su un invito a cena con alti ufficiali dell’Arma alla
presenza di Contrada; quando le presunte rivelazioni dell’ex ambasciatore
americano, ovviamente morto, misero in dubbio la correttezza di Mani Pulite.
Ogni volta che finiva nella polvere, Di Pietro trovava il modo di rialzarsi.
Ora siamo all’ennesimo replay, con le
indagini sui suoi uomini di punta nelle regioni Lazio, Emilia, Liguria, mentre
il centrosinistra lo taglia fuori un’altra volta, Grillo fa man bassa nel suo
elettorato più movimentista e Report ricicla le accuse degli “ex” sui rimborsi
e sulle case. Si rimetterà in piedi anche stavolta, o il vento anti-partiti che
soffia impetuoso nel Paese spazzerà via anche il suo?
Cominciamo da Report, programma benemerito
da tutti apprezzato: domenica sera Di Pietro è apparso in difficoltà, davanti
ai microfoni dell’inviata di Milena Gabanelli. Ma in difficoltà perché? Per
scarsa abilità dialettica o perché avesse qualcosa da nascondere, magari di
inedito e inconfessabile? A leggere (per noi, rileggere) le carte che
l’altroieri ha messo a disposizione sul suo sito, si direbbe di no: decine di sentenze, penali e civili, hanno
accertato che non un euro di finanziamento pubblico è mai entrato nelle
tasche di Di Pietro o della sua famiglia. E nemmeno
nelle case, che non sono le
56 che qualche testimone farlocco o vendicativo, già smentito dai giudici, ha
voluto accreditare: oggi sono 7 o 8 fra la famiglia Di Pietro, la famiglia
della moglie e i due figli. Quanto alla donazione
Borletti, risale al 1995, quando
Di Pietro era ancora magistrato in aspettativa e imputato a Brescia: fu un lascito
personale a un personaggio che la nobildonna voleva sostenere nella speranza di
un suo impegno in politica, non certo un finanziamento a un partito che ancora
non esisteva (sarebbe nato tre anni dopo e si sarebbe presentato alle elezioni
sei anni dopo, nel 2001, e l’ex pm lo registrò regolarmente alla Camera tra i
suoi introiti).
Il resto è noto e arcinoto: all’inizio
l’Italia dei Valori era un piccolo movimento “personale”, tutto incentrato
sulla figura del suo leader, che lo gestiva con un’associazione omonima insieme
a persone di sua strettissima fiducia. In un secondo momento cambiò lo statuto
per dargli una gestione più collegiale. Decine di giudici hanno già accertato
che fu tutto regolare, fatta salva qualche caduta di stile familistica e
qualche commistione fra l’entourage del leader e il movimento. Di Pietro
potrebbe anche fermarsi qui: se, in vent’anni di processi, spiate dei servizi
segreti al soldo di chi sappiamo, campagne calunniose orchestrate da chi
sappiamo che l’hanno vivisezionato e passato mille volte ai raggi X, riciccia
fuori sempre la solita minestra, già giudicata infondata e diffamatoria da fior
di sentenze, vuol dire che di errori ne ha commessi, ma tutti emendabili,
perché il saldo finale rimane positivo.
Senza l’Idv non avremmo votato i referendum
su nucleare e impunità; i girotondi e i movimenti di società civile non
avrebbero avuto sponde nel Palazzo; in Parlamento sarebbe mancata qualunque
opposizione all’indulto, agl’inciuci bicamerali e post-bicamerali, alle leggi
vergogna di B. e anche a qualcuna di Monti; e certe Procure, come quella di
Palermo impegnata nel processo sulla trattativa, sarebbero rimaste sole, o ancor
più sole. Senza contare che Di Pietro non ha mai lottizzato la Rai e le
Authority.
É vero, ha selezionato molto male una parte della sua classe dirigente
(l’abbiamo sempre denunciato). Ma quando è finito sotto inchiesta si è sempre
dimesso e, quando nei guai giudiziari è finito qualcuno dei suoi, l’ha
cacciato. Ora la sorte dell’Idv, fra l’estinzione e il rilancio, è soltanto
nelle sue mani. E non dipende dal numero di case di proprietà, ma da quel che
farà di qui alle elezioni. Siccome è ormai scontato
che si voterà col Porcellum, dunque ancora una volta i segretari di partito
nomineranno i propri parlamentari, apra
subito i gazebo per le primarie non sulla leadership, ma sui candidati. E
nomini un comitato di garanti con De Magistris, Li Gotti, Palomba, Pardi e
altri esponenti dell’Idv o indipendenti al di sopra di ogni sospetto. Qualche
errore sarà sempre possibile, ma almeno potrà dire di aver fatto tutto il
possibile per sbarrare la strada a nuovi Scilipoti,
Razzi e Maruccio. Nel prossimo
Parlamento, verosimilmente ingovernabile
e dunque felicemente costretto all’inciucione
sul Monti-bis, ci sarà un gran bisogno di oppositori seri, soprattutto sul tema della legalità. Se saranno
soltanto i ragazzi di Grillo o anche gli uomini dell’Idv, dipende solo da lui.
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