da: la
Repubblica
I falsi difensori del paesaggio che violano la Costituzione
Nel ddl sulle semplificazioni resta la formula del silenzio-assenso
di Salvatore
Settis
Il
disegno di legge sulle semplificazioni appena approvato dal Consiglio dei
ministri si scontra con un piccolo intoppo: la Costituzione. Il ddl modifica la
normativa sui permessi di costruire nelle zone con vincolo paesaggistico. Ma
insiste nella “dottrina Confindustria” secondo cui la tutela del paesaggio è un
inutile freno all’edilizia, considerata contro ogni evidenza come il principale
motore dell’economia del Paese. Tre sono gli strumenti escogitati negli ultimi
anni per vanificare la tutela del paesaggio in barba alla Costituzione: la
devoluzione di fatto ai Comuni delle procedure autorizzative, la diluizione dei
pareri tecnici dei Soprintendenti in “conferenze dei servizi” dominate dalle
istanze della politica localistica, e infine varie forme di silenzio-assenso
(“chi tace acconsente”). È su quest’ultimo punto che interviene il ddl in
discussione. Il silenzio-assenso, nato per tutelare il cittadino dall’inerzia
della pubblica amministrazione, non può applicarsi in qualsiasi ambito, e
infatti la legge 537/1993 ne escludeva beni culturali e paesaggio. Tuttavia si
tentò con ripetuti colpi di mano di rovesciare le carte, in un idillio
bipartisan in cui il ddl Baccini del 2005 (governo Berlusconi) e il ddl
Nicolais del 2006 (governo Prodi) si somigliano come due gocce d’acqua. In ambo
i casi, lo scempio fu denunciato da questo giornale e da altri, bloccando
l’iter dei provvedimenti. Ma il governo Berlusconi, già in avanzato stato di
decomposizione, portò a segno nel maggio 2011 un colpo di coda, il D. L. 70
(poi L. 106): il silenzio-assenso veniva introdotto modificando il testo unico
sull’edilizia e il Codice dei beni culturali. Ora, che cosa fa
il ddl Monti? In
apparenza migliora la situazione, togliendo dal Codice lo smaccato invito alle
procedure di silenzio-assenso. Ma gli apparenti miglioramenti, su cui l’ignaro
Ornaghi si auto-elogia a vuoto, non cambiano in nulla la sostanza anzi la
confermano fingendo di volerla sanare. Il dispositivo che risulta
dal nuovo ddl, in un labirinto di commi e codicilli, è confuso e farraginoso,
ma qualche punto è chiaro. I permessi di costruire nelle aree vincolate vanno
richiesti a uno “sportello unico” presso ciascun Comune. Le Soprintendenze,
organo a cui la legge affida la tutela del paesaggio, vengono interpellate
insieme con le altre amministrazioni, e possono essere convocate in conferenze
di servizi dove sono ovviamente in posizione minoritaria. Per giunta, il parere
dev’essere reso “in conformità al piano paesaggistico” locale, cioè può non
tener conto dei vincoli ministeriali, a volte non inclusi nel piano
paesaggistico, a volte successivi ad esso. In ogni caso, il parere delle
Soprintendenze dev’essere espresso entro 45 giorni; se no, il Comune può
decidere quel che gli pare. Con la pistola alla tempia, i Soprintendenti o
decidono o perdono ogni potere: di fronte a questo dato di fatto, la
dichiarazione del Ministero secondo cui «la nuova norma rafforza la tutela» è irresponsabile.
Perché la tutela si rafforzi è indispensabile che vi sia chi la fa: ma le
Soprintendenze sono delegittimate dall’incompetenza e dall’inerzia degli ultimi
tre ministri, e al 40% coperte per reggenza; i loro funzionari sono in costante
calo numerico per carenza di turn-over, hanno un’età media di 55 anni, e
sono stati borseggiati da cinici tagli di bilancio, tanto che mancano i soldi
per pagare il telefono e per ispezionare il territorio. In queste condizioni,
ridurre da 90 a 45 giorni i tempi di risposta è uno sberleffo ai funzionari che
provano eroicamente a fare il proprio lavoro. Fingendo di dar risalto al parere
delle Soprintendenze, il ddl Monti le mette in condizioni di minorità,
introducendo una nuova versione del famigerato silenzio-assenso: il
silenzio-abdicazione. Si demanda di fatto ogni decisione ai Comuni che
dappertutto, con un sottobosco di deleghe e subdeleghe, gestiscono il
territorio in funzione di manovre elettorali e degli interessi dei costruttori.
Ma
il silenzio-assenso in tema di paesaggio è contrario all’art. 9 della
Costituzione, come ha dichiarato la Corte Costituzionale in almeno cinque
sentenze: in questa materia «il silenzio dell’Amministrazione preposta non può
avere valore di assenso» (sentenza 404/1997). Il silenzio non ha di per sé
alcun significato giuridico: è il legislatore che sceglie se attribuirgli un
significato, e quale. Se il legislatore privilegia l’interesse pubblico a
tutelare il paesaggio, attribuirà al silenzio dell’amministrazione il valore di
un diniego; se (come nel ddl Monti) gli dà invece valore di assenso o, che è lo
stesso, di abdicazione in favore dei Comuni, privilegia l’interesse privato di
chi intende devastare boschi, coste, zone archeologiche. Questo disegno di
legge impegna la credibilità del governo e il rispetto della Carta fondamentale
dello Stato. Ma l’assalto al paesaggio italiano è, a quel che pare,
irrinunciabile: basti pensare alle dichiarazioni (Passera, Ciaccia) sulla
cementificazione del territorio con grandi opere da finanziarsi con denaro
pubblico, cioè accentuando i tagli alla spesa sociale. Anche il ddl Catania sui
suoli agricoli, partito bene, sta intanto cambiando pelle, tanto che secondo
l’assessore all’urbanistica della Toscana, Anna Marson, «il testo dichiara di
voler tutelare i suoli agricoli e limitarne il consumo, ma nei suoi dispositivi
concreti rischia di produrre nuovo consumo di suolo, anziché ridurlo». La
debole risposta del ministro dei Beni culturali non fa notizia: Ornaghi, si sa,
ha la genuflessione facile. Con accanimento suicida, si invocano le ragioni
dell’economia, le stesse che da trent’anni a questa parte legittimano condoni,
sanatorie e piani casa in nome di uno sviluppo che non c’è stato. Come ha
scritto l’antichista David Sedley, la passività dei governi rispetto alle
pretese leggi dei mercati, sempre più simile a una superstizione, ha la
funzione che nell’impero romano ebbe l’astrologia (anche imperatori assai
pragmatici non muovevano un dito senza consultare gli astrologi di corte). Ma
la tutela del paesaggio è vitale nel sistema di diritti della Costituzione: è
espressione dei «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e
sociale» (art.2), indirizzata al «pieno sviluppo della personalità umana»
(art.3), collegata alla libertà di pensiero e di parola (art.21), alla libertà
dell’arte, della scienza e del loro insegnamento (art.33), al diritto allo
studio (art.34), alla tutela della salute «come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività» (art.32). Secondo la Costituzione
il bene comune non comprime, ma limita i diritti di privati e imprese: alla
proprietà privata deve essere «assicurata la funzione sociale» (art.42), la
libertà d’impresa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale»
(art.41). Mettiamo dunque sul tappeto questa domanda: l’alto orizzonte di
diritti che la nostra Costituzione consegna ai cittadini è compatibile con le
(vere o false) costrizioni dell’economia? E se non lo è, come si risolve il
contrasto, archiviando la Costituzione o agendo sull’economia e sulla politica?
Quale è, su questo punto, la favoleggiata “agenda Monti”?
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