C’è un tratto di surrealismo pynchoniano, nella sindrome da complotto che accompagna da vent’anni le avventure di Berlusconi. Una paranoia che ricorda «L’incanto del lotto 49», le manie ossessive di «Oedipa Mass», le trame oscure ordite dal «Tristero». Ogni disfatta del Cavaliere si spiega secondo la teoria del nemico esterno. Tutti complottano contro di lui, le toghe rosse, i mercati finanziari, le cancellerie europee. E naturalmente Giorgio Napolitano, «regista occulto » del ribaltone che nel novembre 2011 portò Mario Monti allaguida del governo.
Tra tutti i teoremi complottistici che ingombrano la mente del Cavaliere, quello che riguarda il presidente della Repubblica è, al tempo stesso, il più ridicolo e il più drammatico. È il teorema più ridicolo, perché le «clamorose rivelazioni» raccontate da Alan Friedman nel suo libro sono note da tre anni a qualunque italiano medio che abbia letto un giornale. Nell’estate 2011 il governo Berlusconi è già alla frutta e la maggioranza che lo sostiene è già in frantumi. La caduta sembra imminente, già allora. Che in quella fase Monti sia uno dei possibili candidati alla premiership, contattato da numerosi esponenti dell’establishment politico ed economico, e che il Professore sia uno dei successori che lo stesso Berlusconi già allora teme di più, lo scrivono i quotidiani.
Solo «Repubblica», in ben due occasioni: il 4 e l’8 agosto, in altrettanti retroscena. Pochi giorni dopo, al cronista che gli chiede se «è pronto ad accettare una chiamata in caso di emergenza per l’economia italiana», lo stesso Monti replica testualmente: «L’emergenza spero venga presto superata, di chiamata spero proprio che non ci sia bisogno. Se avessi sentito imperativa dentro di me la vocazione di far parte di governi, avrei risposto di sì alla richiesta del centro sinistra, della Lega e del Presidente Scalfaro dopo il ribaltone di fine ‘94… Allo stesso modo ho rifiutato l’offerta dello stesso Berlusconi di fare il ministro degli Esteri nel 2001 e di sostituire Tremonti all’economia nel 2004». Queste parole Monti le pronuncia l’8 agosto, e non in confessionale, ma al Tg5 di proprietà della casata di Arcore.
Dunque di cosa parliamo? Quale «svolta» si nasconde, nei colloqui che in quei giorni Monti intrattiene con Prodi e con De Benedetti, per chiedere consiglio sulla prospettiva di una discesa in campo? E quale patetico «attentato alla costituzione» si configura, nell’incontro che lo stesso Monti intrattiene con il Capo dello Stato, fortemente preoccupato per la fragilità del governo del Cavaliere e giustamente interessato a capire la disponibilità del Professore a un eventuale esecutivo di «salute pubblica»? È fin troppo facile, per il presidente della Repubblica, ricordare ora nella sua lettera il contesto nel quale matura quell’incontro. C’è un’evidente emergenza politica: dallo strappo di Fini (che fonda Fli ed esce dalla maggioranza), alla faida tra ministri (che vede proprio Renato Brunetta, oggi fervido assertore della tesi complottarda, chiedere a più riprese la testa del nemico Giulio Tremonti). C’è un’incombente emergenza economica: lo spread non viaggia ancora verso quota 500 (come avverrà a novembre) ma tra giugno e luglio la Legge di stabilità è un Vietnam, viene scritta e riscritta due volte su ordine della Ue, e il 5 agosto la Bce manda al Tesoro la famosa «lettera di messa in mora».
Non è abbastanza per immaginare che quell’armoniosa Costa Concordia si stia per schiantare sugli scogli, tanto più che il suo Comandante Schettino è già penosamente svillaneggiato agli occhi del mondo per i suoi processi, le sue comparsate a Casoria al compleanno di Noemi Letizia, le sue cene eleganti con la D’Addario e le sue telefonate in questura per Ruby Rubacuori? Non è abbastanza per indurre il Capo dello Stato – rappresentante dell’unità nazionale – a usare i poteri formali che la Costituzione gli attribuisce e gli strumenti informali che la prassi costituzionale gli assegna, per immaginare una qualche «exit strategy» in caso di caduta del governo? Fa ridere solo il pensiero che per tutto questo i falchi di Palazzo Grazioli, usciti improvvisamente dalle gabbie, partano all’attacco del Quirinale e si associno addirittura all’accusa di «alto tradimento» del Movimento 5Stelle. C’è poco da stupirsi: berlusconiani e grillini sono due radici dello stesso albero. Da sempre i populismi crescono nutrendosi della stessa linfa.
Ma al di là del ridicolo, c’è un lato drammatico che colpisce, nel teorema complottistico costruito intorno al Colle. Perché, oggi, Forza Italia ricade nella sua rancorosa mania della cospirazione, e riporta l’attacco al cuore delle istituzioni? Perché, oggi, Berlusconi lascia che si gettino ombre così meschine sulla più alta carica dello Stato, proprio mentre su un altro piano finge di erigersi a «padre costituente» delle riforme insieme a Matteo Renzi? Qui è racchiuso il dramma della fase. Se questa offensiva berlusconiana è frutto di un calcolo politico, oltre che della «patafisica » del complotto, questo può voler dire solo una cosa. Il Cavaliere si accinge a rompere il patto sulla legge elettorale e a buttare al macero l’Italicum, alla faccia del profilo da «statista» che ha finto in questi giorni. E se fa questo è perché al «quizzone» sul destino della legislatura proposto dal leader del Pd (Letta-bis, staffetta premier-sindaco, elezioni) ha già fatto la sua scommessa. O all’opposizione di un governo Renzi, o alla competizione nel voto anticipato. In tutti e due i casi, il Cavaliere torna a fare quello che gli è sempre riuscito meglio: gioca allo sfascio. E lancia una minaccia preventiva a Napolitano: niente scherzi alla Scalfaro, niente «congiure di palazzo».
Una lezione utile per Renzi, sempre più tentato dalla scorciatoia che porta a Palazzo Chigi senza passare per le urne. Andare al governo con Alfano sarebbe un azzardo numerico: non fai le grandi riforme di sistema con la manciata di voti che al Senato ti garantiscono Pd, Ncd e Scelta Civica. Andare al governo con Berlusconi sarebbe un assurdo politico: non entri nella stanza dei bottoni con la messe di voti di una destra impresentabile, dopo aver giurato che vuoi farci un patto sulla legge elettorale oggi per non doverci più fare le Larghe Intese domani.
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