La cosa che più impressiona, in queste ore, è la totale giustapposizione tra il Pd e l’area del potere. Dal Colle a Palazzo Chigi alla sede del partito alla Smart di Renzi è dentro il Pd che tutto accade, così come, un tempo, tutto accadeva dentro la Dc. Con una differenza sostanziale: che la Dc, anche in virtù della sua immeritata rendita (la guerra fredda, l’appoggio degli Usa, la benedizione della Chiesa) poteva contare su un sostanzioso primato elettorale (veleggiava tra il 35 e il 40 per cento), nonché sull’appoggio di alleati che le furono vassalli fedeli, quasi organici. E in anni in cui andava a votare il 90 per cento degli italiani. Mentre al Pd, per fare e disfare governi, basta un 25,42 per cento, per giunta calcolato su un elettorato complessivo quasi dimezzato, per giunta con alleanze precarie e mutevoli. Da elettore del centrosinistra dovrei essere entusiasta del peso sproporzionato del mio voto. Non lo sono, forse perché, pur essendo italiano fino al midollo, mi sento prima cittadino e solo dopo parte di una fazione. Leggo lo strapotere del partito che ho votato come il sintomo di una malattia di sistema. Vedo la fresca investitura popolare di Renzi gettata come una fiche su un tavolo da poker.
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