Avrei una domanda.
In base alle regole
che variano da comune a comune, gettiamo i rifiuti in contenitori per la raccolta
differenziata. Parte dei rifiuti
raccolti viene riciclata, parte finisce nelle discariche.
Le sofferenze sono i
crediti “cattivi”, quelli che le banche ritengono non esigibili. Si butterebbero
in queste “bad bank”; l’equivalente dei contenitori per la raccolta
differenziata. La domanda è: quale è la discarica? Dov’è la discarica?
Per meglio dire: questa
bad bank che raccoglie tutta la spazzatura delle banche dove e su chi si
scarica? Come è fatto il bilancio di queste bad bank. Chi paga i crediti non
esigibili. Si tratta di uno dei soliti artefizi contabili che spostano il
problema o che arricchiscono per successive manovre (rivalutazione quote di
Banca d’Italia da parte delle banche, da cui: le polemiche e le risse
scatenatesi in Parlamento nei giorni scorsi).
I conti non mi
tornano. Ma io vengo da una famiglia “tradizionale”, dove non si fa il passo
più lungo della gamba e dove, alla fine, il totale deve fare 100.
Il sistema bancario
italiano come arriva al totale?
da: la
Repubblica
Sofferenze, tutti pazzi per la bad bank 300 miliardi in
cerca di compratori
Le mosse di Unicredit e Intesa stanno facendo da
battistrada all’intero sistema. Dalle popolari alle casse rurali, tutti sono in
cerca di un modo per ridurre i crediti difficili. I valori di smobilizzo più
vicini a quelli di carico.
di Andrea Greco
È il momento delle
pulizie di Pasqua per le banche italiane. La fine della recessione e la cauta
ripresa, le meno penalizzanti norme fiscali su perdite creditizie, il doppio
esame delle revisioni Bce e dei test Eba impongono di
scuotere una montagna di
300 miliardi di crediti deteriorati. Da cinque anni il monte lievita, così
ostacola la trasmissione della politica monetaria espansiva dell’Eurotower,
tiene a stecchetto famiglie e imprese, azzera la redditività e falcidia il
patrimonio degli istituti. L a tentazione di chiamarla “bad bank all’italiana”
c’è. Ma per sdoganarla va prima contestualizzata con rilievi di contenuto e
forma. Di quei 300 miliardi, infatti, solo metà sono effettivamente in mora
nelle “sofferenze” (e ammontano a 76 miliardi nei dati a novembre quelle nette,
non coperte da rettifiche, accantonamenti o garanzie). Quanto alla forma, va
nettato il senso deteriore che ha assunto la locuzione all’italiana, oltre allo
stigma reputazionale che il concetto bad bank reca. Un anno fa, quando gli
analisti di Mediobanca Securities primi suggerirono alle istituzioni un fondo
di sistema per ripulire dal cattivo credito le banche italiane, Abi e vigilanza
rigettarono la proposta: sia perché non volevano accomunarsi alle banche
spagnole - costrette a chiedere aiuti comunitari per un’esposizione
all’immobiliare ormai insostenibile - sia perché richiedeva decine di miliardi
di fondi pubblici che l’Italia non aveva, né voleva
chiedere alle
istituzioni sovranazionali. Oggi quei due vincoli in Italia permangono, e poco
importa se la bad bank pubblica di Madrid sia additata da molti come esempio
positivo. I direttori di Bankitalia continuano a neanche nominare il termine
bad bank nei discorsi ufficiali, e l’Abi vola sempre basso. Ma qualcosa è
cambiato. E le banche, ansiose di sgravare i bilanci e ridestarsi in tempo per
la ripresa, in ordine semi-sparso si stanno mettendo al lavoro. Da Natale a
oggi una mezza dozzina di cessioni creditizie (Npl, deteriorati, al consumo)
hanno riguardato Unicredit, Mps, Unipol Banca, le Bcc. Molto di più, per quantità
e quantità delle operazioni, si prepara. Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno
accreditato le indiscrezioni per cui studierebbero con Kkr la fattibilità di un
veicolo per apportare crediti tecnicamente “ristrutturati” (pari a 10,6
miliardi nei loro bilanci, vedi tabella); basta non chiamarla bad bank. E
neppure gli operativi di Piazzetta Cuccia parlano più di bad bank: ma è certo
che siano intenti al varo di alcuni fondi settoriali in cui istituti medi e
piccoli - del tipo di Bper e Credito Valtellinese - possano apportare mutui
ipotecari, commerciali, chirografari delle Pmi. Poi ci sono le banche che, pur
non uscendo ancora allo scoperto, sondano una platea compratori, cercando il
prezzo giusto (rispetto ai valori di mercato, ma soprattutto a quelli di bilancio,
che se troppo distanti originano minusvalenze) per liberarsi di Npl e altre
zavorre; tra queste sondano il terreno Ubi e Banco Popolare, Cariparma, Veneto
Banca. In fondo, per dimensioni, vengono le 400 Bcc, in cui la maggior foga
creditizia nel decennio 2000-2010 rende forse più problematica la gestione
delle partite deteriorate, e l’esigenza di esternalizzarle pone una sfida in
più alla holding dei servizi centrali Iccrea; finora solo 22 Casse rurali del
Trentino - tra le più connesse oltre le aree di prossimità - hanno saputo
cedere 150 milioni di sofferenze. Tutto questo tramestio crescente forse non
darà vita alla bad bank di sistema pubblica, tipo la Sareb spagnola. Ma certo
si apparecchia una diffusa “bad bank all’italiana”, fatta con quel che c’è in
casa e come si può. «Questo grande dibattito sui crediti incagliati, come
gestirli e come ridurli, entra finalmente nel vivo - ha detto Federico
Ghizzoni, ad di Unicredit, tra i protagonisti del “dibattito” - abbiamo già
fatto alcune operazioni di vendita di asset, abbiamo già fatto la nostra
segregazione interna, abbiamo 1.100 persone che lavorano ai crediti difficili.
Siamo attrezzati, abbiamo obiettivi e parecchie idee, ma non voglio commentare
casi specifici». Né vuol essere da meno Intesa Sanpaolo, anche perché insieme
le due ex bin valgono due terzi dei crediti deteriorati italiani. Nel piano
strategico al via il 28 marzo l’ad Carlo Messina prepara annunci rilevanti in
materia. Dovrebbe nascere un’unità di business dedicata, in cui collocare la Rehoco
(Real Estate Home Company, piccola holding dedicata ai mutui e al riacquisto di
immobili in asta fallimentare) e la più ambiziosa jv con Piazza Cordusio e Kkr,
per estrarre più valore dai finanziamenti già rinegoziati con una decina di
medie aziende. Il fondo Usa metterebbe la nuova finanza, Alvarez & Marsal
(già consulente nella costituzione della bad bank spagnola) fornirebbe le
professionalità di turnaround management. Nella nuova divisione sul “credito
anomalo” potrebbe trovare posto anche Italfondiario, istituto pubblico divenuto
nel tempo un servicer conto terzi che oggi fa capo al fondo Fortress, e
gestisce crediti anomali di Ca’ de Sass. Il meccanismo di ripulire i libri,
liberando capitale che può così focalizzarsi su nuovi fidi, è intuitivo sia per
gli stock che per i flussi di crediti dubbi. E l’agenda bancaria 2014 li
acuisce e correda di numeri. Tra i maggiori interrogativi di investitori e
analisti settoriali c’è, ad esempio, la probabilità di default (Pd) che l’Eba
imporrà alle banche europee negli stress test autunnali. Una misura sintetica
dei livelli di accantonamento, normalmente calcolata sulla statistiche di
fallimento degli ultimi otto anni. Il rischio è che l’autorità guidata da
Andrea Enria adotti un approccio più statico, restringendo il periodo
considerato fino a un anno. Inutile dire che nell’ultimo anno i fallimenti di
aziende italiane sono da record: e che in tal caso gli accantonamenti
decollerebbero. Altro tecnicismo da considerare è la loss given default (Lgd),
che misura il rischio di recupero creditizio. L’accantonamento è una
ponderazione tra Pd e Lgd, per questo sulle sofferenze (100% di probabilità di
default) impatta poco. Ma più scende il tasso di recupero più sale
l’accantonamento: quindi i crediti già ristrutturati potrebbero essere tra i
più penalizzati agli stress test. «Per questo è molto interessante la mossa
allo studio di Unicredit e Intesa Sanpaolo sui crediti ristrutturati - dice
Enzo Chiesa, partner di Eidos Partners - se si concretizzasse potrebbe avere un
forte impatto sulla gestione crediti in Italia: si aprirebbe la rincorsa dei
concorrenti più piccoli e potrebbero nascere servicer creditizi territoriali
attivi sulle sofferenze». Altri operatori nostrani guardano alle opportunità
derivanti da questo mercato in fieri. Tra loro Fonspa, banca di credito
fondiario che lo scorso autunno fu rilevata dal fondo Tages per focalizzarla
sulla gestione di portafogli Npl cartolarizzati (e che allo scopo sta
arruolando Andrea Munari, per anni dg di Banca Imi). E Prelios Credit
Servicing, guidata da Riccardo Serrini che con 8,5 miliardi di masse è il primo
gestore italiano indipendente di Npl. Ricapitolando: i cespiti non mancano,
anzi. Gli operatori nemmeno. Il recupero dei mercati chiude da mesi lo scarto
tra i valori di presunto realizzo dei crediti difficili (dal 5 a oltre il 30%,
secondo seniority e garanzie) e quelli di iscrizione a bilancio. E dove lo
scarto permane, potranno aiutare sopravvenienze attive da circa 6 miliardi in
arrivo per la rivalutazione delle quote Bankitalia (oltre la metà appannaggio
di Intesa Sanpaolo e Unicredit). Cosa manca? Soprattutto una reale
discontinuità culturale e operativa nel gestire le partite a rischio. La male
intesa fratellanza tra prenditori e prestatori nel capitalismo relazionale
italiano è stata fonte di molti guai. «Uno dei problemi della gestione di
crediti dubbi è che normalmente è curata dai capi dei crediti - racconta un
banchiere - e puoi star certo che sarà un fiasco, perché chi ha concesso quei
crediti vuole recuperarli in toto, inoltre permane la relazione tra
responsabilità e interessi di chi ha dato e chi ha avuto i fidi». Riusciranno i
banchieri del paese più bancarizzato al mondo a separarsi dai loro clienti
morosi, mettendo le loro pratiche nelle mani di recuperatori specializzati e
senza cuore?
Nessun commento:
Posta un commento