giovedì 13 febbraio 2014

Il sistema bancario italiano, crediti in sofferenza: bad bank, la discarica dove sarebbe?

Avrei una domanda.
In base alle regole che variano da comune a comune, gettiamo i rifiuti in contenitori per la raccolta differenziata.  Parte dei rifiuti raccolti viene riciclata, parte finisce nelle discariche.
Le sofferenze sono i crediti “cattivi”, quelli che le banche ritengono non esigibili. Si butterebbero in queste “bad bank”; l’equivalente dei contenitori per la raccolta differenziata. La domanda è: quale è la discarica? Dov’è la discarica?
Per meglio dire: questa bad bank che raccoglie tutta la spazzatura delle banche dove e su chi si scarica? Come è fatto il bilancio di queste bad bank. Chi paga i crediti non esigibili. Si tratta di uno dei soliti artefizi contabili che spostano il problema o che arricchiscono per successive manovre (rivalutazione quote di Banca d’Italia da parte delle banche, da cui: le polemiche e le risse scatenatesi in Parlamento nei giorni scorsi).
I conti non mi tornano. Ma io vengo da una famiglia “tradizionale”, dove non si fa il passo più lungo della gamba e dove, alla fine, il totale deve fare 100.
Il sistema bancario italiano come arriva al totale?


da: la Repubblica

Sofferenze, tutti pazzi per la bad bank 300 miliardi in cerca di compratori
Le mosse di Unicredit e Intesa stanno facendo da battistrada all’intero sistema. Dalle popolari alle casse rurali, tutti sono in cerca di un modo per ridurre i crediti difficili. I valori di smobilizzo più vicini a quelli di carico.
di Andrea Greco

È il momento delle pulizie di Pasqua per le banche italiane. La fine della recessione e la cauta ripresa, le meno penalizzanti norme fiscali su perdite creditizie, il doppio esame delle revisioni Bce e dei test Eba impongono di
scuotere una montagna di 300 miliardi di crediti deteriorati. Da cinque anni il monte lievita, così ostacola la trasmissione della politica monetaria espansiva dell’Eurotower, tiene a stecchetto famiglie e imprese, azzera la redditività e falcidia il patrimonio degli istituti. L a tentazione di chiamarla “bad bank all’italiana” c’è. Ma per sdoganarla va prima contestualizzata con rilievi di contenuto e forma. Di quei 300 miliardi, infatti, solo metà sono effettivamente in mora nelle “sofferenze” (e ammontano a 76 miliardi nei dati a novembre quelle nette, non coperte da rettifiche, accantonamenti o garanzie). Quanto alla forma, va nettato il senso deteriore che ha assunto la locuzione all’italiana, oltre allo stigma reputazionale che il concetto bad bank reca. Un anno fa, quando gli analisti di Mediobanca Securities primi suggerirono alle istituzioni un fondo di sistema per ripulire dal cattivo credito le banche italiane, Abi e vigilanza rigettarono la proposta: sia perché non volevano accomunarsi alle banche spagnole - costrette a chiedere aiuti comunitari per un’esposizione all’immobiliare ormai insostenibile - sia perché richiedeva decine di miliardi di fondi pubblici che l’Italia non aveva, né voleva
chiedere alle istituzioni sovranazionali. Oggi quei due vincoli in Italia permangono, e poco importa se la bad bank pubblica di Madrid sia additata da molti come esempio positivo. I direttori di Bankitalia continuano a neanche nominare il termine bad bank nei discorsi ufficiali, e l’Abi vola sempre basso. Ma qualcosa è cambiato. E le banche, ansiose di sgravare i bilanci e ridestarsi in tempo per la ripresa, in ordine semi-sparso si stanno mettendo al lavoro. Da Natale a oggi una mezza dozzina di cessioni creditizie (Npl, deteriorati, al consumo) hanno riguardato Unicredit, Mps, Unipol Banca, le Bcc. Molto di più, per quantità e quantità delle operazioni, si prepara. Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno accreditato le indiscrezioni per cui studierebbero con Kkr la fattibilità di un veicolo per apportare crediti tecnicamente “ristrutturati” (pari a 10,6 miliardi nei loro bilanci, vedi tabella); basta non chiamarla bad bank. E neppure gli operativi di Piazzetta Cuccia parlano più di bad bank: ma è certo che siano intenti al varo di alcuni fondi settoriali in cui istituti medi e piccoli - del tipo di Bper e Credito Valtellinese - possano apportare mutui ipotecari, commerciali, chirografari delle Pmi. Poi ci sono le banche che, pur non uscendo ancora allo scoperto, sondano una platea compratori, cercando il prezzo giusto (rispetto ai valori di mercato, ma soprattutto a quelli di bilancio, che se troppo distanti originano minusvalenze) per liberarsi di Npl e altre zavorre; tra queste sondano il terreno Ubi e Banco Popolare, Cariparma, Veneto Banca. In fondo, per dimensioni, vengono le 400 Bcc, in cui la maggior foga creditizia nel decennio 2000-2010 rende forse più problematica la gestione delle partite deteriorate, e l’esigenza di esternalizzarle pone una sfida in più alla holding dei servizi centrali Iccrea; finora solo 22 Casse rurali del Trentino - tra le più connesse oltre le aree di prossimità - hanno saputo cedere 150 milioni di sofferenze. Tutto questo tramestio crescente forse non darà vita alla bad bank di sistema pubblica, tipo la Sareb spagnola. Ma certo si apparecchia una diffusa “bad bank all’italiana”, fatta con quel che c’è in casa e come si può. «Questo grande dibattito sui crediti incagliati, come gestirli e come ridurli, entra finalmente nel vivo - ha detto Federico Ghizzoni, ad di Unicredit, tra i protagonisti del “dibattito” - abbiamo già fatto alcune operazioni di vendita di asset, abbiamo già fatto la nostra segregazione interna, abbiamo 1.100 persone che lavorano ai crediti difficili. Siamo attrezzati, abbiamo obiettivi e parecchie idee, ma non voglio commentare casi specifici». Né vuol essere da meno Intesa Sanpaolo, anche perché insieme le due ex bin valgono due terzi dei crediti deteriorati italiani. Nel piano strategico al via il 28 marzo l’ad Carlo Messina prepara annunci rilevanti in materia. Dovrebbe nascere un’unità di business dedicata, in cui collocare la Rehoco (Real Estate Home Company, piccola holding dedicata ai mutui e al riacquisto di immobili in asta fallimentare) e la più ambiziosa jv con Piazza Cordusio e Kkr, per estrarre più valore dai finanziamenti già rinegoziati con una decina di medie aziende. Il fondo Usa metterebbe la nuova finanza, Alvarez & Marsal (già consulente nella costituzione della bad bank spagnola) fornirebbe le professionalità di turnaround management. Nella nuova divisione sul “credito anomalo” potrebbe trovare posto anche Italfondiario, istituto pubblico divenuto nel tempo un servicer conto terzi che oggi fa capo al fondo Fortress, e gestisce crediti anomali di Ca’ de Sass. Il meccanismo di ripulire i libri, liberando capitale che può così focalizzarsi su nuovi fidi, è intuitivo sia per gli stock che per i flussi di crediti dubbi. E l’agenda bancaria 2014 li acuisce e correda di numeri. Tra i maggiori interrogativi di investitori e analisti settoriali c’è, ad esempio, la probabilità di default (Pd) che l’Eba imporrà alle banche europee negli stress test autunnali. Una misura sintetica dei livelli di accantonamento, normalmente calcolata sulla statistiche di fallimento degli ultimi otto anni. Il rischio è che l’autorità guidata da Andrea Enria adotti un approccio più statico, restringendo il periodo considerato fino a un anno. Inutile dire che nell’ultimo anno i fallimenti di aziende italiane sono da record: e che in tal caso gli accantonamenti decollerebbero. Altro tecnicismo da considerare è la loss given default (Lgd), che misura il rischio di recupero creditizio. L’accantonamento è una ponderazione tra Pd e Lgd, per questo sulle sofferenze (100% di probabilità di default) impatta poco. Ma più scende il tasso di recupero più sale l’accantonamento: quindi i crediti già ristrutturati potrebbero essere tra i più penalizzati agli stress test. «Per questo è molto interessante la mossa allo studio di Unicredit e Intesa Sanpaolo sui crediti ristrutturati - dice Enzo Chiesa, partner di Eidos Partners - se si concretizzasse potrebbe avere un forte impatto sulla gestione crediti in Italia: si aprirebbe la rincorsa dei concorrenti più piccoli e potrebbero nascere servicer creditizi territoriali attivi sulle sofferenze». Altri operatori nostrani guardano alle opportunità derivanti da questo mercato in fieri. Tra loro Fonspa, banca di credito fondiario che lo scorso autunno fu rilevata dal fondo Tages per focalizzarla sulla gestione di portafogli Npl cartolarizzati (e che allo scopo sta arruolando Andrea Munari, per anni dg di Banca Imi). E Prelios Credit Servicing, guidata da Riccardo Serrini che con 8,5 miliardi di masse è il primo gestore italiano indipendente di Npl. Ricapitolando: i cespiti non mancano, anzi. Gli operatori nemmeno. Il recupero dei mercati chiude da mesi lo scarto tra i valori di presunto realizzo dei crediti difficili (dal 5 a oltre il 30%, secondo seniority e garanzie) e quelli di iscrizione a bilancio. E dove lo scarto permane, potranno aiutare sopravvenienze attive da circa 6 miliardi in arrivo per la rivalutazione delle quote Bankitalia (oltre la metà appannaggio di Intesa Sanpaolo e Unicredit). Cosa manca? Soprattutto una reale discontinuità culturale e operativa nel gestire le partite a rischio. La male intesa fratellanza tra prenditori e prestatori nel capitalismo relazionale italiano è stata fonte di molti guai. «Uno dei problemi della gestione di crediti dubbi è che normalmente è curata dai capi dei crediti - racconta un banchiere - e puoi star certo che sarà un fiasco, perché chi ha concesso quei crediti vuole recuperarli in toto, inoltre permane la relazione tra responsabilità e interessi di chi ha dato e chi ha avuto i fidi». Riusciranno i banchieri del paese più bancarizzato al mondo a separarsi dai loro clienti morosi, mettendo le loro pratiche nelle mani di recuperatori specializzati e senza cuore?

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