da: la Repubblica
Google Tax, parte la guerra contro il fisco virtuale
delle grandi Web company
E’ una marea montante che va dagli Usa all’Europa
all’Asia. I primi effetti già si vedono: il motore di ricerca si è visto
bocciare per due volte dall’UE l’offerta di un accordo per evitare una
megamulta come Microsoft 10 anni fa.
di Stefano Carli
Il presidente francese
Hollande ha definito le strategie fiscali delle Web company “inaccettabili”. Il
Congresso Usa, dopo aver scoperto che la Apple ha versato in tasse appena lo
0,05% dei suoi ricavi ha parlato di “società fantasma”, di “trame e trucchi” e
di “arroganza totale”. Il Financial Times, pubblicando quanto i primi sette
gruppi della Rete hanno versato al fisco britannico, ha titolato sulla “Bonanza
fiscale”. La Germania e l’Italia hanno provato a introdurre modifiche
legislative da sole ma hanno commesso errori e hanno capito che ora si dovrà
procedere compatti all’interno delle istituzioni europee. Anche l’Ocse ora
spiega che il comportamento fiscale delle Web company crea danni perfino nei
mercati in via di sviluppo. E fin qui si parla solo di tasse e di casse
pubbliche. Ma c’è un versante ugualmente complesso e grave che riguarda invece
le distorsioni anticompetitive che le agevolazioni ormai anacronistiche
all’economia digitale stanno provocando a svantaggio di tutti gli altri
settori. A partire dalla grande distribuzione. Insomma, è una marea che sale e
inizia ad avere i suoi primi effetti.
Si chiama Google Lex perché il gigante dei motori
di ricerca è il più grande di tutti, con i suoi 55 miliardi di dollari di
fatturato 2013 appena annunciato. Ma potrebbe chiamarsi Apple, o Amazon, o
E-Bay o Facebook, perché contro le
grandi Web company sta montando una marea di dimensioni planetarie.
Dall’Unione Europea (Gran Bretagna, Francia e Germania in testa) all’India, dal
Cile ad Israele e perfino negli stessi Stati Uniti sono sotto accusa le agevolazioni fiscali che stanno creando
in ogni mercato distorsioni
competitive, e che un numero crescente di Stati inizia a malsopportare alla
luce dei fabbisogni che le casse pubbliche di ogni latitudine si trovano ad
affrontare. E’ poi una marea trasversale, che non rispetta nemmeno le
tradizionali divisioni delle diverse strategie di politica economica. Negli Usa
ha perfino spaccato in due il partito repubblicano. I numeri sono pochi e
impressionanti. Ma forse ancora più impressionante è che avere numeri è
difficile. Di Google, come di Amazon
è impossibile sapere l’effettivo valore del
giro d’affari nei vari paesi. Negli States
si stima che nel 2012 Google abbia risparmiato 2 miliardi di dollari di tasse grazie ad un uso
sapiente di sedi opportunamente
dislocate tra Olanda, Irlanda, Bermuda. E non ultimo al fatto che la
società di Mountain View, California, come viene solitamente chiamata, ha la
sua sede legale nel Delaware. In Inghilterra il Financial Times ha titolato
sulla “Tax Bonanza” e ha citato stime secondo cui nel 2012 le prime 7 Web
company attive sul mercato britannico hanno complessivamente versato tasse per
soli 54 milioni a fronte di ricavi totali stimati oltre 15 miliardi. In Francia
il fisco ha stimato che nel 2011 Google, Amazon, Apple, Facebook e Microsoft
hanno pagato tasse per 37,5 milioni invece di oltre 800 se avessero avuto un
regime fiscale pari alle altre aziende europee e Hollande ha dichiarato venerdì
che tutto questo è inaccettabile. Va premesso che tutto ciò è formalmente legale (anche se c’è chi
parla di possibile accusa di “abuso di diritto”) e che deriva dai vantaggi
offerti dalla diversità dei regimi
fiscali europei, come l’Irlanda,
il Lussemburgo e l’Olanda. D’altra parte anche la Fiat ha appena traslocato in Olanda e a
Londra. E la holding della famiglia Ferrero
è in Lussemburgo. Ma Fiat - come Ferrero
- continua a produrre in Italia e paga le tasse sui risultati della spa
italiana. E comunque qui si conosce ogni singola auto o barattolo di Nutella
venduti, mentre con la Web economy tutto diventa opaco. In Italia, per esempio,
Amazon Italia ha due strutture logistiche che hanno fatturato nel 2012 31
milioni. Ufficialmente. Ma il fatturato “vero” della filiale italiana di Jeff
Bezos, ossia il totale di merci vendute online a citha tadini italiani è vicino
ai 300 milioni. E che dire di Google? Anche qui non si conosce il fatturato.
Quando si calcola il valore del mercato
italiano della pubblicità online si prendono i dati ufficiali e li si
moltiplicano per due; Google insomma fattura da solo quanto tutti gli altri. Di
più: Google è di fatto la seconda concessionaria
pubblicitaria italiana dopo Publitalia ma ufficialmente è indimostrabile.
Le tasse e i mancati introiti dei governi sono però solo una faccia della
medaglia. L’altra è data dai vantaggi competitivi delle Web company. Meno tasse
si traduce qui in margini più alti e maggiore capacità di manovra sulla leva
dei prezzi rispetto ai concorrenti. E’ per questo che dietro alla levata di
scudi britannica ci sono le catene della grandi distribuzione, penalizzate
anche nei loro portali online, dove pagano tasse “europee”: da Sainsbury a
Dixons, la maggiore catena europea di elettronica di consumo. E poi non c’è
solo il fronte fiscale. Contro Google in particolare, stavolta, ci sono ricorsi
all’Antitrust europea per le sue politiche commerciali. E’ una vicenda che
parte nel 2010. Google è accusata di 4
tipi di abusi. Vantaggi nei
risultati delle ricerche per chi compra pubblicità su Google; vantaggi per i servizi offerti dalla
stessa Google rispetto a quelli analoghi della concorrenza; discriminazioni verso chi non investe;
richieste di esclusiva. «Google ha presentato ben due piani di rimedi
compensativi alla concorrenza - spiega Innocenzo Genna, che da anni segue le
politiche comunitarie a Bruxelles e con posizioni non sospette, visto che è
stato a lungo rappresentante degli Internet provider europei - Ma non sono
stati bocciati. Non dalla Commissione, ma dalle imprese del settore tra le
quali la Direzione concorrenza di Joaquin Almunia li aveva messi a
consultazione. Tanto che a gennaio Almunia ha minacciato una multa sul tipo di
quella inflitta alla Microsoft giusto 10 anni fa, quando al suo posto c’era
Mario Monti. Ora però, di fronte alla terza versione di rimedi da Google la
scorsa settimana, Almunia si è detto disposto a ratificare l’accordo. Che però
ancora non piace a molti, compresa Microsoft. E va rilevato è che a far
decollare la procedura sono stati non imprenditori dell’economia tradizionale,
ma proprio alcune Web company come E-Dreams o Expedia». Google costretta per
tre volte a rifare i compiti a casa vuol dire che le pressioni sulle Web
company i primi effetti li stanno producendo. Ma la partita resta complessa, la
materia è nuova e gli errori sono frequenti. In Italia è stata molto criticata la cosiddetta legge Boccia, ma perché dava una risposta sbagliata al problema,
finendo per penalizzare non Google ma le
imprese che comprano pubblicità dal motore di ricerca. Stesso errore
commesso dal governo cileno, la cui legge “anti-Google” ha elevato la
tassazione ma ha finito per far pagare le imprese cilene ed è stata ritirata.
In Israele il governo conservatore di Netanyahu sta pensando di introdurre una
tassa del 7% sui ricavi pubblicitari online. Simile a quella che aveva provato
a introdurre in Germania Angela Merkel ma senza successo. Nella partita è intanto
entrata anche l’Ocse perché a far pressione c’è tutto il G20: la motivazione è
che questo disordine fiscale non sta portando problemi solo ai concorrenti
europei delle Web company e alle casse degli Stati dell’Unione, ma penalizza
anche i paesi in via di sviluppo che si vedono sottrarre risorse. L’Italia ha
prima approvato la legge Boccia e poi l’ha congelata fino a fine giugno. La
ragione è che la legge non funziona, ma la sua approvazione dovrebbe essere uno
stimolo ad approvarne una migliore in tempi brevi. Quando e in che termini? Gli
occhi dei governi europei sono ora rivolti a un’indagine voluta dal governo di
Parigi per trovare una risposta meno amatoriale al problema. Dai suoi
risultati, attesi entro questo mese di febbraio, dovrebbe scaturire una
proposta che potrebbe essere portata avanti da tutta l’Unione e che verrebbe
discussa - e si spera varata - entro il semestre di presidenza Italiana
dell’Ue, che scatta proprio il giorno dopo la fine del “congelamento” della
legge Boccia, ossia il prossimo primo luglio. Unica buona notizia: dal prossimo
primo gennaio 2015 entra in vigore
il nuovo regolamento Ue sull’Iva varato nel 2008. E’ la fine
dell’anomalia Iva europea. Oggi infatti, e fino al prossimo capodanno l’Iva sui
beni e servizi digitali è calcolata e
versata nello Stato di residenza di chi vende e non in quello di chi
compra, come accade con beni e servizi tradizionali. Insomma se un’azienda
italiana compra pubblicità su Google non paga l’Iva italiana ma quella
irlandese. Cio non vuol dire che il fisco italiano non sappia quello che Google
Ireland fattura in Italia (Google Italia è solo una piccola società di
servizi): lo sa, ma non le serve. Ma dal prossimo anno le cose cambieranno. «Il
nuovo regime Iva è una buona cosa, ma non risolve il problema. E soprattutto il
problema non lo si risolve con battaglie di retroguardia sulle regole - dice
però Renato Soru, fondatore e ad di Tiscali - Non si può ridurre tutto alle
tasse. La verità è che io dal governo italiano mi aspetto che faccia di più per
aiutare lo sviluppo di Web company italiane. Altrimenti corriamo un rischio
enorme. Tra qualche anno Internet darà
il 30% dei ricavi totali della pubblicità. E di questo passo questo 30%
finirà all’estero. Per esempio,
nella pubblicità profilata, siamo ancora agli inizi: oggi le piattaforme sono
tutte statunitensi. Dobbiamo far nascere nuove iniziative europee e italiane.
Creare concorrenti. Io ci credo, sono convinto che ci sia spazio perfino nei
motori di ricerca. Abbiamo combattuto e vinto i monopoli nelle tlc,
nell’energia, possiamo vincere anche i nuovi monopoli del Web». Qui sopra, il
fatturato di Google e la quota di ricavi che il gigante dei motori di ricerca
produce sul mercato della pubblicità Sopra, la sede di Google a Mountain View
in California, anche se fiscalmente ha diverse sedi, dal Delaware, Stato che
offre forti privilegi, a “paradisi” veri e propri come le Bermuda.
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