da: la Repubblica
Per il modo in cui è stata congegnata, per
le doppiezze che l'hanno contraddistinta, per i regolamenti di conti con cui
s'è conclusa, l'ascesa di Matteo Renzi alla guida del governo ha il sapore di
certi cambi di guardia al Cremlino. Un esorbitante partito-Stato si fa macchina
di potere, usa i propri uomini come pedine, li uccide politicamente se
ingombrano, tradisce la parola data senza spiegazioni.
Il tutto avviene "a porte
chiuse", come nel dramma claustrofobico di Sartre: lontano dal Parlamento,
dalla prova elettorale che era stata assicurata, da una società che il
partito-Stato non sa più ascoltare senza vedere, dietro ogni cittadino,
l'inferno molesto di qualche populismo. La liquidazione di Enrico Letta è
avvenuta in streaming, ma sostanzialmente fuori scena: secondo Carmelo Bene,
questa è l'essenza dell'osceno. Non sarà forse così, Renzi riuscirà forse a
realizzare quel che promette: un piano lavoro entro marzo, soprattutto. Ma
l'inizio incoraggia poco. Per la terza volta, in un Parlamento di nominati, il
Pd designa per Palazzo Chigi un nominato.
È già accaduto in passato: basti ricordare
il sotterraneo lavorio contro il governo Prodi, nel '98. E più di recente, in
aprile, il tradimento di 101
parlamentari Pd che avevano giurato di votare
Prodi capo dello Stato e in un baleno l'affossarono. Colpisce la coazione a
ripetere il gesto violento, e a scordare subito i traumi lasciati dalle
coltellate. Una famosa giornalista francese, Françoise Giroud, scrisse una
volta: "Ogni capo politico deve avere l'istinto dell'assassino". Il
coltello non è più un incidente. S'è fatto istinto, tendenza innata.
La cosa straordinaria, e solo in apparenza
paradossale, è che la macchina del Pd cresce in potenza, man mano che organizza
autodafé e perde i contatti con la società. Già da tempo ha smesso di
identificarsi con la sinistra: parola da cui fugge, quasi fosse un fuoco che
scotta e incenerisce. Già da tempo non si preoccupa di parlare in nome degli
oppressi, degli emarginati, ed è mossa da un solo obiettivo: il potere nello
Stato, attraverso lo Stato. Letta ha preparato il terreno, ma non guidava il
Pd. Ora è un capo-partito a ultimare la metamorfosi: l'abbandono della
rappresentatività, la governabilità che diventa movente unico, l'oblio della
sinistra e della sua storia.
Ovvio che l'istinto a tradire si tramuti in
normalità. Può darsi che Renzi cambi l'Italia in meglio, che renda lo Stato
addirittura più giusto. Che non si spenga in lui la memoria del consenso
popolare ottenuto alle primarie. Ma il come ancora non lo sappiamo, la
coalizione è quella di ieri, e la macchia della defenestrazione di Letta gli
resta appiccicata al vestito. Difficile dimenticarla. Difficile dimenticare le
parole carpite lunedì a Fabrizio Barca. Il quale grosso modo ha detto questo: "C'è
chi mi vuole ministro dell'Economia. Ma per fare che? Per imporre una
patrimoniale di 400 miliardi di euro, cosa che secondo me va fatta e però non è
nei piani?".
Questo svanire della sinistra è un fenomeno
europeo diffuso, ma in Italia è particolarmente accentuato. Nell'Unione sono
ormai undici i Paesi governati da Grandi Coalizioni, in teoria non siamo molto
diversi. Quel che è anomalo, nei connubi ideologici italiani, è il discredito
profondissimo gettato sulla stessa parola sinistra, l'annebbiarsi della sua
storia, del suo patrimonio, della sua vocazione alla rappresentanza. Altrove la
sinistra classica, quella che dà voce ai deboli, possiede ancora uno spazio.
Perfino laddove ha le tenebre alle spalle, come in Germania (la Linke è erede
di un regime totalitario, nell'Est tedesco) non cancella d'un colpo quel che la
lega alla società. Nel Congresso sull'Europa dello scorso fine settimana la
Linke ha provato a cambiare la propria storia evolvendo, ha aperto all'Unione
che esecrava. Ma il nome che porta non lo cambia.
Non così in Italia, dove la sinistra
precipita dalle scale e si ritrova vocabolo non grato. È la vittoria postuma di
Bettino Craxi ed è il lascito di Berlusconi, con cui il Pd di Renzi intende
riformare la Costituzione. Della grande idea avanzata da Prodi negli anni
Novanta - unire il solidarismo universalista cristiano e quello comunista - non
resta che brace spenta.
La scomparsa della sinistra non significa
tuttavia che siano scomparsi i mali che la giustificarono in passato: la
questione sociale è di ritorno, la disuguaglianza di redditi e opportunità s'è
estesa in questi anni di crisi, nessun Roosevelt è in vista che la freni. E la
riduzione della disuguaglianza, secondo la classificazione di Norberto Bobbio,
rimane il più antico e vivo retaggio della sinistra. È sperabile che il
piano-lavoro di Renzi non sacrifichi per l'ennesima volta una lotta che deve
essere di rottura, e non per motivi ideologici ma perché l'Italia è rotta da
sofferenze e avvilimenti. Che non lasci il proprio elettorato inerme, senza
rappresentanza, e non ascolti solo quegli economisti politici che Marx chiamava
"bravi sicofanti del capitale", dediti "nell'interesse della
cosiddetta ricchezza nazionale a cercare mezzi artificiosi per produrre la
povertà delle masse".
Quel che sconcerta, nella presunta ansia modernista di Renzi, è la
formidabile vecchiezza dei modelli prescelti: rifarsi oggi a Tony Blair vuol
dire correre a ritroso nel tempo, mettere
i piedi su orme che sette anni di crisi hanno coperto di sabbia. Se le disuguaglianze
sono aumentate vertiginosamente, se si parla oggi di un 1% della popolazione
che continua imperturbato ad arricchirsi e di un 99% di impoveriti (classi
medie comprese), lo si deve alle destre più legate ai mercati ma anche alla
Terza Via di Blair. Le ricette di Margaret Thatcher non morirono con il Nuovo
Labour, e sopravvissero nella battaglia accanita contro un'Europa più unita e
solidale. L'idea thatcheriana che "la società non esiste se non come
concetto", che esistono "solo individui e famiglie con doveri e
convinzioni", è interiorizzata dal Pd nel preciso momento in cui la realtà
l'ha smentita e sconfitta.
L'homo novus di Firenze suscita grandi
aspettative, ed è vero quel che dice: leadership non è una parolaccia. Ma fin
dalla prime sue mosse, negoziando con il pregiudicato Berlusconi la legge
elettorale, il leader ha fatto capire che la rappresentatività è un bene
minore. Il suo Pd stenta a mediare fra società e Stato. È degenerato in
"cartello elettorale stato-centrico", sostiene Piero Ignazi: è parte
dello Stato anziché controparte; ha un potere che tanto più si dilata al
centro, quanto più si sfilaccia il legame con gli iscritti, le periferie, la
democrazia locale (Ignazi, Forza senza legittimità, Laterza 2012). Per questo
l'odierno sviluppo partitocratico è solo in apparenza paradossale. Mandare in
fumo l'eredità della sinistra - la lotta alla disuguaglianza, la difesa del
bene pubblico - induce il Pd a trascurare l'arma principale evocata da Barca:
la tassazione progressiva dei patrimoni più elevati (articolo 53 della
Costituzione). L'economista Joseph Stiglitz fa calcoli più che plausibili,
anche per l'Italia: "Se chi appartiene al primo 1 per cento incassa più
del 20 per cento del reddito della nazione, un incremento del 10 per cento dell'imposta
sul reddito (senza possibilità di sfuggirvi) potrebbe generare entrate pari a
circa il 2 per cento del Pil del Paese".
Renzi punta sulla propria lontananza dai
giochi partitici, sul successo che gli ha garantito la base. Ma quel che
avviene nelle ultime ore rischia di vanificare la sua diversità: il Parlamento
costretto a tacere sulle modalità bolsceviche della liquidazione di Letta, il
cambio deciso "fuori scena", sono segnali nefasti. Torna alla ribalta
la politica, ma impoverita democraticamente. Tornano i partiti; mentre i
cittadini coi loro rappresentanti stanno a guardare. Come meravigliarsi che la
società si radicalizzi, quando è la realtà a farsi sempre più radicale?
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