da: Il Fatto Quotidiano
Via
Nazionale difende la ricapitalizzazione a 7,5 miliardi, ma ammette: saliranno i
dividendi ai privati e migliorerà il patrimonio di vigilanza
L’aumento di capitale a 7,5 miliardi della
Banca d’Italia è un regalo alle banche. Non lo dice soltanto qualche economista
o il Movimento Cinque Stelle che è andato allo scontro con la presidente della
Camera Laura Boldrini per fermare la legge Imu-Bankitalia. Lo conferma la
stessa Banca d’Italia in una nota dal titolo “Conseguenze per la Banca d’Italia della legge 29 gennaio 2014, n. 5”
diffusa ieri. Per essere precisi: via
Nazionale e il governatore Ignazio Visco in persona rifuggono l’espressione
“regalo” e difendono l’impianto complessivo della riforma che va nella
direzione a lungo auspicata, cioè di fare chiarezza sull’assetto proprietario e
di marcare l’indipendenza dalla politica (meglio legarsi alle banche vigilate
che trovarsi sotto l’influenza del ministero del Tesoro, sembra la filosofia
prevalente a palazzo Koch).
In un incontro con i giornalisti Visco spiega che la Banca d’Italia resta pubblica, che rispettare la legge del 2005 secondo cui lo Stato doveva ricomprarsi le quote del capitale di via Nazionale in mano alle banche dal 1936 era troppo complesso (anche in caso di esproprio, come si calcolavano i risarcimenti?), che lo Stato alla fine non dovrebbe rimetterci troppo.
Ma sui
due punti cruciali Visco conferma le denunce dei critici. Primo: la rivalutazione delle quote, dal valore
simbolico di 156 mila euro a 7,5 miliardi, migliora
il patrimonio di vigilanza delle banche titolari delle quote. Tradotto: i
loro bilanci appariranno all’improvviso più solidi per un ritocco contabile. Il Core Tier 1, la misura di solidità usata per
i confronti internazionali, salirà in media dello 0,3 per cento e dello 0,4 per
i 15 istituti principali. Certo, l’effetto ci sarà soltanto dal 2015, il balsamo contabile non vale
durante l’esame europeo condotto in questi mesi dalla Bce come premessa
dell’Unione bancaria (i tedeschi della Bundesbank avevano già fatto sapere in
via preventiva che non lo avrebbero tollerato), ma il beneficio è soltanto
differito.
Secondo punto sensibile: con la riforma, cambiano le regole per i dividendi
assegnati ai “quotisti”, cioè alle banche
proprietarie di fette del capitale. Si legge nella nota di Bankitalia: la
riforma “implicherà presumibilmente per i partecipanti un dividendo accresciuto nell’immediato (ma non nel tempo) rispetto a quello percepito negli anni recenti”.
Per decifrare la frase servono le spiegazioni del governatore Visco e del
direttore generale Salvatore Rossi. In sintesi: prima della riforma gli utili prodotti dalla Banca d’Italia (dovuti
al signoraggio, cioè all’emissione di moneta per conto della Bce, e alle altre
attività finanziarie) andavano ad aumentare le riserve della Banca e in piccola
parte diventavano un dividendo calcolato sulla base delle riserve. Un principio
che in via Nazionale non piaceva, perché creava confusione: le banche private
socie di Bankitalia possono accampare qualche pretesa sui frutti delle riserve,
ma non sulle riserve stesse che sono patrimonio pubblico, della banca centrale
e in fondo dello Stato. Ora invece il diritto
dei soci è calcolato direttamente sull’utile, le riserve sono al sicuro. Vi
siete persi? Con i numeri è più chiaro:
prima il dividendo ai privati era 70 milioni, da quest’anno dovrebbe essere
450. Un bell’aumento. In via Nazionale preferiscono sottolineare che prima non
c’era un tetto massimo (poteva andare in teoria da 70 a 300 milioni e poi
crescere ancora con l’aumento delle riserve), mentre ora non si va sopra i 450
milioni. Le banche, da parte loro, sono ben contente di ottenere un aumento
secco di oltre sei volte.
C’è soltanto un ostacolo per i due
principali beneficiari, cioè Intesa
Sanpaolo e Unicredit che hanno
rispettivamente il 30,3 per cento e il
22,1: i dividendi sopra il 3 per
cento, nuovo tetto massimo al possesso, sono
congelati. La Banca d’Italia può ricomprare dalle due banche la quota in
eccesso, con un esborso potenziale di 3,5 miliardi, ma fra tre anni e soltanto
se nel frattempo Intesa e Unicredit non hanno trovato acquirenti sul mercato.
Quindi i due colossi del credito dovrebbero trovare subito qualcuno a cui
vendere le quote da dismettere per fare cassa, e non è detto che sia facile
visto che nessuno sa se c’è un mercato per le azioni della Banca d’Italia.
L’aumento dei dividendi non va a beneficio di Intesa e Unicredit, quindi, ma
sarà redistribuito tra tutti gli azionisti, compresi quelli che rileveranno
parte delle azioni oggi detenute dalle due grandi banche.
Le banche devono fare qualcosa in cambio di
questi favori concessi dalla politica usando la leva di via Nazionale? Sulla
carta no, non c’è modo di costringerle a
usare i benefici contabili ottenuti
dalla rivalutazione delle quote per dare più credito a imprese e famiglie (anche
se un pezzo del Pd sostiene invece che questo risultato sia scontato). Ma il
governatore Ignazio Visco ha fatto capire che farà moral suasion perché le
banche usino al meglio le risorse ottenute grazie alla legge Imu-Bankitalia.
Chissà se basterà.
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