da: Il Fatto Quotidiano
Ritardare all’infinito la trattazione di gravi problemi significa farli marcire. Quando poi si interviene lo si fa con l’acqua alla gola. Aprendo spazi a chi voglia sfruttare la tecnica del “prendere o lasciare”, della chiamata alle armi come extrema ratio per salvare la casa che brucia: con lo scopo di far passare soluzioni che altrimenti sarebbero indigeribili. Una situazione che in questi giorni si può constatare sia sul versante della legge elettorale che della legge “svuota-carceri”.
Parliamo di quest’ultima e registriamone le
obiettive radici di indifferibile urgenza, derivanti dalla necessità di
impedire che scatti la mannaia della sentenza “Torreggiani” emessa nel gennaio
2013 dalla Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo), sospesa fino a maggio 2014
per dare tempo al nostro Stato di rimediare al sovraffollamento delle carceri.
Se non si fa subito qualcosa, diverrà inesorabile una straziante gogna
internazionale dell’Italia come “Stato torturatore”, oltre a dover pagare
sanzioni pecuniarie imponenti per i quasi tremila ricorsi già presentati per
detenzione disumana e degradante.
E se siamo arrivati a questo drammatico
punto di non ritorno è perché è mancato
un progetto globale che preveda – tra l’altro – un’effettiva separazione fra imputati e condannati,
concrete misure di
risocializzazione, il rilancio delle misure alternative,
l’estensione del lavoro penitenziario da poche realtà (tipo Milano-Opera e
Padova) alle altre carceri. Un libro dei sogni? Prospettive utopiche se si tiene conto che i fondi scarseggiano
ogni giorno di più? No, se si considerano alcuni dati di base. Il rapporto numerico fra detenuti e
popolazione del nostro Paese non si
discosta molto dalla media della Ue. Abbiamo il miglior rapporto europeo
fra detenuti e poliziotti penitenziari.
Ottimo è anche il rapporto fra cubatura totale degli edifici penitenziari e
metratura che conseguentemente potrebbe essere destinata ai detenuti.
Francamente, a fronte di questi dati è paradossale che si parli ciclicamente di
insufficienza degli organici della polizia penitenziaria pretendendo sempre
nuove assunzioni (si noti che l’88% delle spese dell’amministrazione
penitenziaria è assorbito dal personale). Così come è paradossale che possa
verificarsi un sovraffollamento di dimensioni tali da causare la pesante
condanna della Cedu. Sovraffollamento che viene percepito in maniera ancor più
angosciosa per il fatto che l’organizzazione
del nostro sistema carcerario è di tipo
chiuso, vale a dire che salvo poche ore i detenuti sono costretti a trascorrere tutto il giorno in cella; e
per il fatto che in cella, a volte, per stare un po’ di tempo in piedi si
devono addirittura fare dei turni.
Vero è che ci sono nodi assai aggrovigliati
che precedono e sovrastano il sistema
carcerario. Per esempio, in Italia la risposta penale colpisce anche molti
fatti che in altri paesi non sono reato
e la sanzione carceraria è quella di
gran lunga prevalente (anche se – attenzione – spesso essa non scatta subito,
ma progressivamente: perché il sistema prevede via via la negazione della
sospensione condizionale e delle attenuanti, oltre che dei benefici
penitenziari, così da formare una catena che alla lunga imprigiona il
soggetto). Altro nodo è che in Italia la disciplina
delle misure alternative è certamente avanzata, ma la prassi applicativa è limitata rispetto agli altri paesi
europei, anche per una certa “prudenza” della magistratura che obiettivamente
risente della tendenza purtroppo “forcaiola” di ampi settori di opinione
pubblica, che a sua volta si traduce nella carenza di sostegno esterno al
reinserimento.
Così, se in Italia sono circa 30.000 a scontare la pena all’esterno, in Francia sono 173.000 e 237.000 nel Regno
Unito. Restano però in ogni caso – e pesano – i paradossi di cui sopra,
sintomatici di una destinazione certamente non ottimale sia degli spazi
disponibili (molte sono le sezioni non utilizzate), sia della polizia
penitenziaria (senza sminuirne il quotidiano impegno). Ciò che rappresenta
l’interfaccia e al tempo stesso il riscontro di quella mancanza di un progetto
globale d’intervento che è l’esatto contrario delle misure ispirate a logiche
emergenziali come la legge “salva carceri” approvata dalla Camera.
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