lunedì 10 febbraio 2014

Tv: Hostages, una serie per il maschio che è in voi

da: http://www.kataweb.it/  - di Amleto De Silva



Una delle cose che maggiormente differenziano uomini e donne è Jerry Bruckheimer. Non è il sesso, non è la sensibilità, non è il fatto che gli uni vengono da Marte e le altre da Venere. E’ Jerry Bruckheimer, state a sentire a me. Quando un uomo guarda la sua sigla un brivido gli serpeggia lungo la spina dorsale: sa perfettamente che lo aspettano almeno due ore di pistolettate, scazzottamenti, barbe mal rasate, grandi bevute di birra, corse in motocicletta e inseguimenti in automobili che finiscono immancabilmente in scontri violentissimi. Questo, quando Bruckheimer si sente romantico. Quando una donna guarda la stessa sigla, in genere sbuffa e si rende conto che sta uscendo con un troglodita, e ha perfettamente ragione. Perché Jerry Bruckheimer ha prodotto, negli ultimi anni, degli ottimi film come The Rock, Con Air, Bad Boys I e II, Allarme rosso, Armageddon, Bad company, che però marcano con fermezza il territorio. Se uno vede qualcosa prodotto dall’uomo di Detroit, sa benissimo a cosa va incontro, se ci porta la moglie a tradimento: una bella causa di divorzio. L’uomo di Detroit è questo, prendere o lasciare. Però, c’è un però: Bruckheimer è molto bravo nel suo lavoro, ed è per questo che i suoi film
sono sempre godibili: sono caciaroni, esagerati, cialtroneschi, ma ti stimolano quella parte del cervello che quando la chiami e gli chiedi dov’è, sta sempre, immancabilmente, aprendo il frigo per farsi una birretta fresca. Non è intelligente, questo sì, però è simpatica.
Però, come dicevo, è bravo: per questo Hostages, la serie che ha prodotto e che è appena andata in onda negli Usa, è più che godibile: è fatta in maniera impeccabile, come sempre. Di più: per almeno la metà del tempo non sembra un prodotto targato Jerry Bruckheimer. Tratto da un format israeliano (tutti parlano delle serie israeliane, gli americani ci hanno tirato fuori In Treatment, noi lo abbiamo mortificato con un remake polpettonesco e pretenzioso, come nostra abitudine) che però non è mai andato in onda, Hostages è una serie di quelle che ti tengono in ansia per tutte le puntate, in questo caso tredici, con un susseguirsi di colpi di scena che, anche se dopo il trentesimo di fila cominciano pure a scocciare un po’, denotano una grande attenzione nella scrittura del prodotto. Mi limito ad uno spoiler piccolissimo, quasi insignificante: è la storia di un gruppo di persone che tiene in ostaggio una famiglia per costringere uno di loro a commettere un crimine. Però la famiglia in ostaggio è composta da quattro persone, e i rapitori sono quattro anche loro, e questo comporta un numero di variabili praticamente infinite, se qualcosa va storto: e qualcosa, effettivamente, va storto immediatamente, come nella vita reale. E come nella vita reale, si cerca di mettere una pezza che in genere è peggio del buco. E quando le persone che cercano di mettere le pezze in mano non hanno ago e filo, ma pistole cariche, cominciano i guai; gli stessi guai che riescono a combinare quando si accorgono di essere attratti l’uno dall’altra. Insomma, Hostages parte come una serie del più puro Bruckheimer, poi diventa una spy story stile Le Carrè, poi una gomblottata alla Grisham (tipo Il rapporto Pelikan, per intenderci), poi una storia d’amore torbida alla Patty Hearst. C’è tutto quello che si può desiderare da una serie tv, ovviamente se vi piace il genere. Certo è che si resta sempre con la voglia di sapere come va a finire, cosa succederà dopo, come si comporterà quello, se quell’altro farà o no la tale cosa. Per qualcuno questo è sinonimo di feuilleton; per me, invece, significa solo una cosa: roba scritta come si deve da gente che sa quello che fa.
Note tecniche: il membro della famiglia che è obbligato a commettere un crimine è una donna, interpretata da Toni Collette la racchiona però attraente che in questa serie quasi riscatta le inimmaginabili brutture di United States Of Tara (che ha dimostrato che Diablo Cody vale più come spogliarellista che come autrice: e immagino sia una pessima spogliarellista); il suo molliccio marito è interpretato da Tate Donovan, l’ameboide socio di Glenn Close in Damages, con la consueta, snervante fiacchezza che però stavolta è adattissima al ruolo. Nota di merito per il capo dei cattivi, il duro dal cuore tenero Dylan McDermott, reduce dal cappellino che portava nella prima stagione di American Horror Story, e che si esibisce in una girandola di cambiamenti emozionali. Prima duro e implacabile, poi tenero ai limiti del frignone, poi enigmatico, poi ancora “uomo de fero”, sempre con la stessa identica espressione. Ma col marchio Bruckheimer, però. Mica poco.

SPOILER è la rubrica che parla delle serie tv che non sono ancora arrivate in Italia, ma che se siamo fortunati arriveranno presto: una selezione assolutamente arbitraria ma rigorosamente in buona fede curata da Amleto “Amlo “de Silva, blogger (www.amlo.it), vignettista, autore teatrale e scrittore

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