da: http://www.kataweb.it/ - di Amleto De Silva
Una delle cose che maggiormente
differenziano uomini e donne è Jerry
Bruckheimer. Non è il sesso, non è la sensibilità, non è il fatto che gli
uni vengono da Marte e le altre da Venere. E’ Jerry Bruckheimer, state a
sentire a me. Quando un uomo guarda la sua sigla un brivido gli serpeggia lungo
la spina dorsale: sa perfettamente che lo aspettano almeno due ore di
pistolettate, scazzottamenti, barbe mal rasate, grandi bevute di birra, corse
in motocicletta e inseguimenti in automobili che finiscono immancabilmente in
scontri violentissimi. Questo, quando Bruckheimer si sente romantico. Quando
una donna guarda la stessa sigla, in genere sbuffa e si rende conto che sta
uscendo con un troglodita, e ha perfettamente ragione. Perché Jerry Bruckheimer
ha prodotto, negli ultimi anni, degli ottimi film come The Rock, Con Air, Bad
Boys I e II, Allarme rosso, Armageddon, Bad company, che però marcano con
fermezza il territorio. Se uno vede qualcosa prodotto dall’uomo di Detroit, sa
benissimo a cosa va incontro, se ci porta la moglie a tradimento: una bella
causa di divorzio. L’uomo di Detroit è questo, prendere o lasciare. Però, c’è
un però: Bruckheimer è molto bravo nel suo lavoro, ed è per questo che i suoi
film
sono sempre godibili: sono caciaroni, esagerati, cialtroneschi, ma ti
stimolano quella parte del cervello che quando la chiami e gli chiedi dov’è,
sta sempre, immancabilmente, aprendo il frigo per farsi una birretta fresca.
Non è intelligente, questo sì, però è simpatica.
Però, come dicevo, è bravo: per questo Hostages,
la serie che ha prodotto e che è appena andata in onda negli Usa, è più che
godibile: è fatta in maniera impeccabile,
come sempre. Di più: per almeno la metà del tempo non sembra un prodotto
targato Jerry Bruckheimer. Tratto da un format
israeliano (tutti parlano delle serie israeliane, gli americani ci hanno
tirato fuori In Treatment, noi lo abbiamo mortificato con un remake
polpettonesco e pretenzioso, come nostra abitudine) che però non è mai andato
in onda, Hostages è una serie di quelle che ti tengono in ansia per tutte le puntate, in questo caso tredici, con un
susseguirsi di colpi di scena che, anche se dopo il trentesimo di fila
cominciano pure a scocciare un po’, denotano una grande attenzione nella
scrittura del prodotto. Mi limito ad uno spoiler piccolissimo, quasi
insignificante: è la storia di un gruppo
di persone che tiene in ostaggio una famiglia per costringere uno di loro a
commettere un crimine. Però la famiglia in ostaggio è composta da quattro
persone, e i rapitori sono quattro anche loro, e questo comporta un numero di
variabili praticamente infinite, se qualcosa va storto: e qualcosa,
effettivamente, va storto immediatamente, come nella vita reale. E come nella
vita reale, si cerca di mettere una pezza che in genere è peggio del buco. E
quando le persone che cercano di mettere le pezze in mano non hanno ago e filo,
ma pistole cariche, cominciano i guai; gli stessi guai che riescono a combinare
quando si accorgono di essere attratti l’uno dall’altra. Insomma, Hostages
parte come una serie del più puro Bruckheimer, poi diventa una spy story stile
Le Carrè, poi una gomblottata alla Grisham (tipo Il rapporto Pelikan, per
intenderci), poi una storia d’amore torbida alla Patty Hearst. C’è tutto quello
che si può desiderare da una serie tv, ovviamente se vi piace il genere. Certo
è che si resta sempre con la voglia di sapere come va a finire, cosa succederà
dopo, come si comporterà quello, se quell’altro farà o no la tale cosa. Per
qualcuno questo è sinonimo di feuilleton; per me, invece, significa solo una
cosa: roba scritta come si deve da gente che sa quello che fa.
Note tecniche: il membro della famiglia che
è obbligato a commettere un crimine è una donna, interpretata da Toni Collette la racchiona però
attraente che in questa serie quasi riscatta le inimmaginabili brutture di
United States Of Tara (che ha dimostrato che Diablo Cody vale più come
spogliarellista che come autrice: e immagino sia una pessima spogliarellista);
il suo molliccio marito è interpretato da Tate Donovan, l’ameboide socio di
Glenn Close in Damages, con la consueta, snervante fiacchezza che però stavolta
è adattissima al ruolo. Nota di merito per il capo dei cattivi, il duro dal
cuore tenero Dylan McDermott, reduce
dal cappellino che portava nella prima stagione di American Horror Story, e che
si esibisce in una girandola di cambiamenti emozionali. Prima duro e
implacabile, poi tenero ai limiti del frignone, poi enigmatico, poi ancora
“uomo de fero”, sempre con la stessa identica espressione. Ma col marchio
Bruckheimer, però. Mica poco.
SPOILER
è la rubrica che parla delle serie tv che non sono ancora arrivate in Italia,
ma che se siamo fortunati arriveranno presto: una selezione assolutamente
arbitraria ma rigorosamente in buona fede curata da Amleto “Amlo “de Silva,
blogger (www.amlo.it), vignettista, autore
teatrale e scrittore
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