da: La Stampa
Palestina
le incognite del voto Onu
di Maurizio
Molinari
La risoluzione che oggi trasformerà la
Palestina in Stato non-membro delle Nazioni Unite è un evento spartiacque in
Medio Oriente.
I motivi sono tre: l’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha un nuovo status giuridico,
il suo presidente Mahmud Abbas assume il ruolo di protagonista regionale e gli accordi di pace di Oslo del 1993 vengono
indeboliti se non delegittimati.
Forte del sostegno di 132 Stati su 193,
l’Anp si avvia a raccogliere nell’Assemblea Generale dell’Onu ben oltre i 97
voti necessari grazie ai quali la Palestina
viene dichiarata Stato osservatore -
come la Santa Sede - assumendo la legittimità internazionale perseguita
dall’Olp di Yasser Arafat sin dalla dichiarazione di Algeri del 15 novembre
1988, con la conseguenza di poter aderire a
Trattati, Corti e Convenzioni a cominciare dal Tribunale penale
internazionale. Poiché il testo della risoluzione fa riferimento a «Cisgiordania,
Gaza e Gerusalemme Est» ciò significa che l’Onu
riconosce l’esistenza di uno Stato di Palestina entro i confini anteriori al giugno 1967 - proprio come recita la
Dichiarazione d’indipendenza palestinese - a prescindere dal raggiungimento di
un accordo di pace con Israele.
La conseguenza è che Mahmud Abbas
riguadagna spazio e prestigio fra i palestinesi: eletto nel 2005 all’ombra
onnipresente di Arafat, umiliato nel 2007 dal colpo di mano di Hamas a Gaza,
con il mandato scaduto da oltre tre anni ed emarginato dalla recente crisi di
Gaza, ora diventa il leader del nuovo Stato, incassa da Hamas il sostegno nella
votazione al Palazzo di Vetro, è sostenuto da dozzine di capitali e si sente
politicamente forte al punto da definire «patetica» l’opposizione
dell’amministrazione Obama all’odierna risoluzione. La scelta di Abbas di far
coincidere questo momento con la riesumazione della salma di Arafat - al fine
di appurare se nel 2004 sia morto avvelenato - sottolinea la volontà di
trasformare il voto dell’Onu nel volano di una coesione palestinese, tesa a
farsi largo sulla scena internazionale a prescindere dalla pace con Israele. Da
qui la scelta della data: la coincidenza con il 65° anniversario del voto
dell’Onu sulla spartizione della Palestina mandataria britannica in uno Stato
ebraico ed uno arabo vuole sottolineare che viene sanata quella che i
palestinesi, dentro e fuori i Territori, considerano ancora oggi come una
storica ferita.
Il successo di Abbas ha però come prezzo l’indebolimento degli accordi di Oslo, fondamento della pace con Israele, perché
prevedevano che lo Stato di Palestina sarebbe nato attraverso negoziati
bilaterali. E’ questo il motivo per cui gli Stati Uniti, garanti di quelle
intese raggiunte da Bill Clinton con Arafat e Yitzhak Rabin, si sono opposti
all’iniziativa di Abbas fino all’ultimo. Ieri sera William Burns, vice del
Segretario di Stato Hillary Clinton, si è recato nell’hotel di Manhattan dove
si trova Abbas per chiedergli, a nome di Obama, di fermarsi. Il motivo lo spiega
Robert Danin, arabista del «Council on Foreign Relations» di New York, secondo
cui «Abbas ottiene una vittoria di Pirro» perché il risultato sarà «un’America
meno impegnata nel processo di pace» e dunque meno possibilità di intese
durature con Israele.
Abbas scommette invece sullo scenario
opposto, nella convinzione che la nuova legittimità gli darà più carte da
giocare nel negoziato con Israele. Saranno i prossimi mesi a dire se ha ragione
o meno. Al momento l’unica conclusione che si può trarre riguarda la desolante spaccatura dell’Unione Europea incapace, per l’ennesima volta, di unirsi sulla crisi israelo-palestinese
con in evidenza un’Italia ancora incerta su come schierarsi.
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