da: La Stampa
Un
centro e troppe anime
di Luca
Ricolfi
Sì, pare proprio che il centro stia tornando
ad essere di moda, come lo era stato per quasi mezzo secolo, ai tempi in cui
governava la Dc. Allora votare centro significava soprattutto una cosa: tenere
i fascisti e i comunisti lontani dalle stanze del potere. Ma bastarono 5 anni
per disfarne quasi 50. Fra il 1989 e il 1994 tutto cambiò, nel mondo e in
Italia. Nel 1989 cadde il muro di Berlino, e la paura del comunismo si sciolse
come neve al sole. Il resto, in Italia, lo fecero Mario Segni con i referendum
sulla legge elettorale e Di Pietro con l’inchiesta Mani pulite. In un pugno di
anni, fra il 1991 e il 1994, democristiani e socialisti furono affondati per
sempre. Al loro posto si fecero avanti i reietti di ieri, fascisti e comunisti,
che per rendersi accettabili provvidero lestamente a riverniciare le loro
insegne, cambiando nome, modernizzando programmi, stabilendo alleanze con il
nuovo o presunto nuovo che stava avanzando, dalla Lega alla Rete, da Forza
Italia al Patto Segni.
È così che è nato il bipolarismo
all’italiana, e il centro è stato emarginato dalla scena politica.
Oggi che quel bipolarismo appare fallito,
si ritorna a parlare di centro. Della necessità di ricostituire qualcosa che
non sia né di destra né di sinistra. Lo fanno un po’ tutti. I centristi di
sempre, alla Casini. I centristi dell’ultima ora, tipo Fini e Rutelli. I
sostenitori di un Monti-bis, che ultimamente spuntano come funghi. I riformisti
duri e puri, delusi dal riformismo zoppo di destra e sinistra.
Ma che cosa è il centro oggi?
E’ questa, a mio parere, la domanda che non
ha ancora ricevuto una risposta completa e chiara. Non dico che non abbia
ricevuto nessuna risposta, perché alcuni valori dei centristi sono nitidamente
riconoscibili: competenza, serietà, rispetto per le istituzioni, coesione
sociale, volontà di ricostruire. Non è poco, ma solo perché ne abbiamo davvero
tanto bisogno dopo esserne stati così tanto privati negli ultimi vent’anni, da
tutti i governi della seconda Repubblica. Ma un minimo comun denominatore non
fa ancora un programma politico. E anzi, il fatto che sia questo il nucleo, il
nocciolo condiviso che unisce i centristi, è un segno di debolezza politica,
una conferma – e non un superamento – dello stato di eccezione dell’Italia:
solo in un paese in cui manca una vera offerta politica si può pensare che quel
minimo comune denominatore di nobili principi sia già un programma, o che basti
parlare di «agenda Monti» e di Monti-bis per persuadere gli elettori di
possederne uno.
Perché quello del centro riuscisse a
diventare un vero programma politico occorrerebbe che i suoi leader
completassero la risposta. Va bene il minimo comune denominatore, ma il cuore
di un programma politico sono le scelte difficili, le scelte tragiche, come già
trent’anni fa ebbero a chiamarle Guido Calabresi e Philip Bobbitt in un celebre
libro – Tragic choices – dedicato a «i conflitti che la società deve affrontare
nella allocazione di risorse tragicamente scarse». In un’era di risorse
decrescenti il punto non è chi vogliamo sostenere, ma è a spese di chi vogliamo
farlo. Qui quasi tutti i protagonisti della competizione al centro sono
reticenti, evasivi, o dimentichi della propria storia.
Il centro
che già c’è, quello dell’Udc di Casini, è stato – almeno in passato – una colonna portante del «partito della spesa
pubblica», ha le sue radici elettorali soprattutto in Sicilia e nel resto
del Mezzogiorno, possiede una lunga
storia di clientele e guai giudiziari. Con il suo leader Pier Ferdinando
Casini ha difeso fino all’ultimo un politico come Totò Cuffaro, ora in carcere con una condanna definitiva per
favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. Prima di ascoltare ogni sorta di
lodevoli intenzioni per il futuro, ci piacerebbe ascoltare dall’Udc due parole chiare sul proprio passato, e magari
sentir pronunciare – oltre al consueto omaggio a Monti – quelle scuse agli elettori che Casini aveva
preannunciato in caso di condanna di Cuffaro (Annozero, 31 marzo 2008).
Il centro
che ancora non c’è, quello che sta prendendo forma in questi mesi sotto le
insegne più varie (cattolici di Todi, Italia Futura, Fermare il declino) è una
creatura strana. Per alcuni dei suoi
protagonisti la stella polare è il sostegno alle famiglie, per altri sono gli
sgravi ai produttori. Due obiettivi che è facile conciliare in un bel discorso,
ma che si mettono immediatamente a stridere appena si tratta di decidere la
destinazione di qualche miliardo di euro. Ridurre l’Irpef o ridurre l’Irap?
Alleggerire le tasse alle famiglie in cui la madre non lavora (il cosiddetto
quoziente familiare), o aiutare quella medesima madre a trovar lavoro,
riducendo il cuneo fiscale sul lavoro femminile? Usare i soldi di tutti i
contribuenti per salvare le amministrazioni in default (ormai diffuse anche al
centro-nord), o costringerle a salvarsi da sé, vendendo patrimonio pubblico e
tassando i propri cittadini?
Sono solo esempi, ma si potrebbero
moltiplicare. Su tutte queste cose il centro
tace. E quando prova a rispondere non risponde alla domanda giusta, perché
è affetto da «ma-anchismo», il tic
per cui prendevamo in giro Veltroni qualche
anno fa, ogni volta che proclamava di volere una cosa «ma anche» un’altra,
diversa e spesso contraria. Il problema è che, arrivati al punto in cui siamo,
le risorse sono così scarse, e lo resteranno così a lungo, che non è più
assolutamente possibile sottrarsi alle domande fondamentali. Non possono
sottrarsi il Pd di Bersani e il Pdl di Alfano, ma ancor meno possono farlo i
leader del centro. E questo per una ragione molto semplice: quello che destra e
sinistra potrebbero fare è prevedibile sulla base del passato, e spesso è stato
la medesima cosa, ovvero più deficit e più spesa pubblica politicamente
redditizia. Mentre quel che potrebbero fare le forze politiche di centro non
solo è meno facilmente prevedibile, ma è diversissimo a seconda di chi stiamo
parlando. Se per centro intendiamo quelle formazioni che rifiutano sia il (presunto) populismo anti-politico di
Grillo, sia le politiche della
destra e della sinistra, non possiamo non notare che – dentro quello che
oggi è il calderone del centro – convivono visioni opposte, molto più
polarizzate di quanto lo siano quelle della destra e della sinistra. A un
estremo il moderatismo cattolico,
tradizionalmente attratto dalle politiche di sostegno del reddito delle
famiglie, all’altro estremo il radicalismo
riformista e liberale, che ritiene di poter far dimagrire lo Stato di molti
chili (punti di Pil) e in pochi anni. Provate, per credere, a organizzare un dibattito pubblico serio, con domande scomode, fra Pier Ferdinando Casini e un qualsiasi
rappresentante dell’Istituto Bruno Leoni,
la cittadella dei liberali
oscillante fra Italia Futura (Montezemolo) e Fermare il declino (Oscar
Giannino). E vedrete che è più facile
mettere d’accordo un Pier Luigi Bersani e un Angelino Alfano che un vero
cattolico e un vero liberale.
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