da: Lettera 43
Bangladesh,
aziende mortali
Le
imprese tessili sono trappole. Dove in 3 mln lavorano per 27 euro al mese. E
dal 2006 500 operai hanno perso la vita.
di Davide
Illarietti
L’ultimo rogo è del 26 novembre:
in 12 arse vive. Il giorno prima le vittime erano state 121:
bruciate in un incendio. Per lo più donne, tutte schiave del «made in».
Operaie del tessile che adesso, dopo le
ultime stragi del Bangladesh, occupano le strade e si rifiutano di entrare
negli stabilimenti della morte nella poverissima capitale Dacca. Protestano
contro le paghe da 83 centesimi di euro al giorno, contro le condizioni di
lavoro imposte dai «caporali» dell'abbigliamento, contro l'indifferenza dei
clienti occidentali. Tra questi diverse aziende italiane.
DAL 2006 OLTRE 500 VITTIME. Il
bollettino degli scontri di Dacca, periodicamente tormentata da sciagure come
gli ultimi due incendi, la dice lunga sull’esasperazione delle donne bengalesi:
oltre 200 fabbriche chiuse, un'autostrada bloccata, migliaia di persone così
affamate e terrorizzate da rischiare di perdere anche il magro stipendio per
scendere in strada a gridare la loro rabbia. I numeri, d’altronde, sono
terribili: dal 2006 sono oltre 500 i lavoratori bengalesi morti in incidenti
dai quali non sono potuti scappare.
LE PERSONE SFRUTTATE SONO 3 MLN. Lo
sfruttamento nel settore tessile in Bangladesh riguarda oltre 3 milioni di persone
(donne, soprattutto, anche minorenni) «incatenate» alle macchine cucitrici,
costrette a lavorare sette giorni su sette, per 14 ore al giorno e, in media,
27 euro al mese.
Suddivise in 4.500 fabbriche, stanno chine
sulla macchine da cucire per riempire le vetrine dei centri commerciali
occidentali con prodotti fashion a basso costo: basti pensare che, nel solo
2011, sono entrati in Italia prodotti d'abbigliamento «made in Bangladesh» per
un valore di 670 milioni di euro.
LA COMPLICITÀ DEI MARCHI INTERNAZIONALI. E
mentre la gente fa incetta di fashion low cost, soltanto gli attivisti per i
diritti umani provano a ricordare da dove arrivi tanto ben di dio.
«Abbiamo chiesto un intervento immediato da
parte dei marchi internazionali», ha spiegato aLettera43.it Deborah
Lucchetti, coordinatrice in Italia della Campagna abiti puliti. «Siamo convinti
che abbiano dimostrato negligenza, e non abbiano preso contromisure efficaci ai
problemi di sicurezza messi in evidenza da incidenti precedenti».
Ineke Zeldenrust, presidente
dell'associazione con sede ad Amsterdam, aggiunge che «molti brand sanno da
anni che tante fabbriche in cui scelgono di produrre sono trappole mortali».
La dura legge di un settore che vale 14,6
mld di euro l'anno
Ma l’economia non guarda in faccia nessuno.
E il tessile è il settore a cui il Bangladesh ha scelto di affidarsi - ironia
della sorte - anche per uscire dalla miseria che ancora investe il 40% dei 140
milioni di abitanti. L'export «made in Bangladesh» valeva 12 miliardi di euro
nel 2010: oggi sono 14.6 miliardi (l'80% del totale delle esportazioni
bengalesi).
Tra questi c'è anche la fabbrica del
distretto di Savar in cui si è verificato l’ultimo incendio: uno stabilimento
aperto nel maggio 2010, con 1.500 dipendenti e 35 milioni di dollari di ricavi
annuali.
UN RISARCIMENTO DA 1.000 EURO.Per la prima volta, una parte del fatturato servirà a risarcire le famiglie delle vittime dei roghi: Siddiqur Rahman, vicepresidente della Confindustria del tessile bengalese, la Bgmea, ha promesso 100 mila taka (circa 1.000 euro, ovvero 1.200 dollari Usa) come risarcimento.
L'equivalente di oltre 20 anni di lavoro. Bazzecole, certo, in confronto agli standard occidentali.
ANCHE PIAZZA ITALIA TRA I CLIENTI DELLO STABILIMENTO BRUCIATO. Ma necessarie anche a distogliere l’attenzione dal Gruppo Tuba, l'azienda bengalese proprietaria dello stabilimento tra i cui clienti figurano catene come WalMart, Ikea e Carrefour. E anche, secondo quanto risulta a Lettera43.it, l'italiana Piazza Italia, il marchio napoletano (2 mila dipendenti e 330 milioni di euro di fatturato nel 2011) famoso per gli spot televisvi sulla «gente comune».
UN RISARCIMENTO DA 1.000 EURO.Per la prima volta, una parte del fatturato servirà a risarcire le famiglie delle vittime dei roghi: Siddiqur Rahman, vicepresidente della Confindustria del tessile bengalese, la Bgmea, ha promesso 100 mila taka (circa 1.000 euro, ovvero 1.200 dollari Usa) come risarcimento.
L'equivalente di oltre 20 anni di lavoro. Bazzecole, certo, in confronto agli standard occidentali.
ANCHE PIAZZA ITALIA TRA I CLIENTI DELLO STABILIMENTO BRUCIATO. Ma necessarie anche a distogliere l’attenzione dal Gruppo Tuba, l'azienda bengalese proprietaria dello stabilimento tra i cui clienti figurano catene come WalMart, Ikea e Carrefour. E anche, secondo quanto risulta a Lettera43.it, l'italiana Piazza Italia, il marchio napoletano (2 mila dipendenti e 330 milioni di euro di fatturato nel 2011) famoso per gli spot televisvi sulla «gente comune».
L'azienda, contattata da Lettera43.it,
ha fatto sapere che «ha appena appreso dell'episodio» dell'incendio, e «non è
in grado di verificare, per il momento, se la fabbrica bengalese fosse
effettivamente tra i propri fornitori». Anche perché, spiegano dagli uffici di
Piazza Italia, «normalmente l'azienda si serve di intermediari per l'acquisto
delle merci».
Tutti i principali gruppi nazionali,
d’altra parte, acquistano dal Bangladesh: Benetton, Coin, Oviesse, Teddy.
COSTI DI PRODUZIONE INFERIORI A QUELLI CINESI. Il perché lo ha spiegato lo stesso rappresentante degli industriali bengalesi. «Il vantaggio del Bangladesh sui Paesi concorrenti sta proprio nella disponibilità di forza lavoro», ha dichiarato recentemente a un giornale locale. E nei costi, inferiori addirittura a quelli cinesi. «La Cina perde ogni anno il 5% delle sue commesse tessili verso l'estero (che valgono il 30% del mercato globale, ndr), proprio a causa dell'aumento nei costi di produzione, e potrebbe presto perdere il posto di primo esportatore mondiale del tessile», ha ricordato Rahman a una delegazione di manager di Tesco, Gap, Inditex (Zara) e H&M, che hanno visitato il Paese.
COSTI DI PRODUZIONE INFERIORI A QUELLI CINESI. Il perché lo ha spiegato lo stesso rappresentante degli industriali bengalesi. «Il vantaggio del Bangladesh sui Paesi concorrenti sta proprio nella disponibilità di forza lavoro», ha dichiarato recentemente a un giornale locale. E nei costi, inferiori addirittura a quelli cinesi. «La Cina perde ogni anno il 5% delle sue commesse tessili verso l'estero (che valgono il 30% del mercato globale, ndr), proprio a causa dell'aumento nei costi di produzione, e potrebbe presto perdere il posto di primo esportatore mondiale del tessile», ha ricordato Rahman a una delegazione di manager di Tesco, Gap, Inditex (Zara) e H&M, che hanno visitato il Paese.
Chi prenderà il posto della Cina? «Il
Bangladesh ha ottime possibilità: siamo già il secondo esportatore globale del
tessile, le aziende del settore hanno tutto l'interesse a delocalizzare da noi:
gli altri Paesi in via di sviluppo non hanno a disposizione la nostra stessa
forza lavoro», ha ricordato Rahman. Un invito che, per le lavoratrici di Dacca
e le associazioni dei consumatori, suona come una minaccia.
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