giovedì 15 novembre 2012

Quelli che…mancano, Ennio Flaiano: saggio biografico di Gino Ruozzi


da: Il Venerdì di Repubblica

Ennio Flaiano
Il battutista triste che vedeva il futuro
Ricordato soprattutto per la straordinaria ironia, fu anche un intellettuale preveggente, come non se ne trovano più. A quarant’anni dalla morte, l’amico Giovannino Russo ricorda
di Alberto Riva

Meglio di un rosso d’annata. Come invecchia bene Ennio Flaiano non invecchia nessuno tra i nostri classici. A quarant’anni dalla scomparsa, che avvenne il 20 novembre 1972 a Roma, Flaiano continua a essere citato, letto e materia di appassionata analisi critica. Recentissima è l’uscita di un bel saggio biografico sull’autore del Tempo di uccidere. L’ha scritto Gino Ruozzi, che insegna all’Università di Bologna, e si intitola Ennio Flaiano. Una verità personale (Carocci).  
Dal libro emerge uno scrittore per certi versi inedito, innanzitutto non più quel pigro epigrammista, flaneur abruzzese trapiantato nella Roma della Dolce Vita che la mitologia ci ha tramandato fin qui.
In realtà Flaiano era un lavoratore indefesso, che si divideva tra cinema (sceneggiò decine di film per Fellini, Antonioni, Rossellini), racconti, poesie, cronache teatrali, articoli e, certamente, battute fulminanti. Che erano il suo maggior talento e la sua croce, Non che l’autore di Un marziano a Roma fosse da meno di chi, come gli accadde, sperduto in un paese del sud per un servizio, era capace di uscirsene con questa considerazione: «Qui il problema non è del mezzogiorno, ma della mezzanotte, perché alla sera non c’è niente da fare!». Erano talmente strepitose le sue battute («chi mi ama mi precede»…«anime semplici abitano talvolta corpi complessi»…«moriremo prendendo appunti») che spesso Flaiano viene ricordato solo per quello. Troppo poco.

Anche perché rileggerlo significa scoprire un occhio lucidissimo, preveggente ai limiti del paranormale su difetti, tare, caratteri, magagne del nostro presente italiano, se pensiamo che negli anni Cinquanta scriveva: «Questo Paese un giorno sarà una Repubblica basata sulla televisione». Preziosa dunque l’uscita del libro, perché Flaiano reclama a gran voce verità personali. E una personalissima è quella di Giovannino Russo, che di Flaiano fu prima collega e in qualche modo «allievo» al Mondo di Mario Pannunzio, e poi amico intimo. E che su Flaiano scrisse un libro affettuoso e fondamentale per la comprensione del mito: Flaianite.
«Su Flaiano è stato scritto tanto, spesso basandosi su incontri non avvenuti o ricordi imprecisi» puntualizza il giornalista, classe 1925, fedele tutt’oggi all’amicizia. «Ho letto il saggio di Ruozzi e rende molto bene l’idea di quanto fosse complessa e sfaccettata la personalità di Flaiano».
Cioè?
«L’idea che fosse uno che diceva solo battute è completamente sbagliata. Certo, quando era in vena non lo fermava nessuno, però era un uomo malinconico, spesso silenzioso, con i suoi lati sofferenti. Non a caso il suo amico Mino Maccari l’aveva ribattezzato “redattore cupo” quando lavoravano insieme al Mondo. E dopo il fiasco del Marziano a Roma a teatro fu Maccari a dire: Ennio, l’insuccesso ti ha dato alla testa!».
Lei lo conobbe nel 1949. Come avvenne?
«Io ero venuto via dalla Lucania e mi ero laureato a Roma, e poi avevo cominciato a fare il giornalista all’Italia Socialista. Lì conobbi Aldo Garosci e Carlo Levi, e proprio Levi mi presentò al Mondo, che a quel tempo aveva appena cominciato le pubblicazioni. Il mio primo articolo lo consegnai a Flaiano. Non mi aspettavo che dopo quindici giorni sarei stato chiamato. Gli era piaciuto. E subito mi dispensò una delle sue perle di saggezza: gli articoli si migliorano con i tagli, però dipende da chi i tagli li fa! Ed era lui spesso a tagliare».
Nel libro di Ruozzi è riportato un giudizio di Buzzati su Flaiano: dietro la risata c’era uno scrittore amaro e in fondo tristissimo.
«E’ vero. Era amaro, soprattutto quando si affrontavano i problemi reali della società italiana. E anche se non si occupava di politica direttamente, era scrittore civile e impegnato. Come Pannunzio. Però, a differenza di Pannunzio, che frequentava i politici, lui dalla politica era annoiato: i loro discorsi, gli interessi, si sentiva un pesce fuor d’acqua. Quando veniva l’ora di cena, magari Pannunzio andava per trattorie più di livello con i suoi amici politici. E noi si andava da Cesaretto, che era più alla mano e un ritrovo di artisti. Flaiano preferiva stare tra i giovani. E con la gente del cinema».
Cesaretto non era solo una trattoria, ma un modo di vivere la cultura, no?
«Certo. Flaiano e gli amici assidui istituirono il “Premio Cesaretto” che veniva assegnato a chi diceva la maggior stupidaggine della serata. Tanta gente l’ha vinto e nemmeno lo sa! Si contrapponeva alla ufficialità e alla retorica del premio Strega».
Che pure Flaiano vinse nel ’47 con Tempo di Uccidere. L’annuncio di un romanziere che poi non volle ripetersi. Flaiano era orgoglioso?
«Era permaloso, questo sì. Flaiano aspirava alla perfezione letteraria. I suoi idoli erano Gogol, Cechov, Manzoni. Anche per Pannunzio, Manzoni era il massimo scrittore, tanto è vero che tra le sue ultime volontà ci fu quella di essere sepolto con una copia dei Promessi Sposi nella bara. Così avvenne. Pannunzio diceva a noi giovani: dovete scrivere come Flaubert, cosa che poneva, diciamo, dei problemi di incontro tra etica ed estetica. Non dovevamo tradire la verità, ma scriverla bene».
Flaiano rifiutò un suo pezzo, nel 1950, sull’Anno Santo. Come mai?
«Mi prese da parte e mi disse: guarda Giovanni, la differenza tra il Mondo e Momento Sera è minima, ma tu l’hai superata! Aveva un modo spiritoso anche per dare le brutte notizie. Ci restai malissimo, per due settimane non scrissi, poi lo rifeci e uscì. Non ho mai capito cosa non gli piacque, ma aveva ragione: forse era una cronacaccia!».
Le brutte notizie non facevano piacere neppure a lui, o sbaglio? Quando Prezzolini stroncò Melampus ci restò malissimo, così come fece Arrigo Benedetti con Oh, Bombay! Gli diedero dello «scrittore spiritoso».
«Apriti cielo. Ne soffriva, di quell’etichetta, e non aveva tutti i torti. Lui indulgeva spesso alla battuta, ma era uno scrittore di grande livello. Soffriva quando non veniva apprezzato il suo contributo, come accadde con Fellini. Un’amicizia che si ruppe per questo. Flaiano scherzava sul fatto di aver conservato tutte le caratteristiche degli abruzzesi, un certo carattere duro. Amava la franchezza. Il suo ideale era la conversazione, come al Mondo, che dopo le sei di sera diventava un salotto letterario, c’erano tutti; veniva Corrado Alvaro con la cronaca teatrale scritta su foglietti trasparenti e la leggeva ad alta voce! Era l’epoca in cui mi capitava spesso di vedere De Chirico prendere il suo cappuccino al Caffè Greco. Non c’era distinzione tra scrittori, giornalisti, artisti. Non c’era l’ossessione della televisione che oggi ha cancellato tutto. Certe cose contavano, come quando salvammo Cesaretto dal trasformarsi in una jeanseria».
E come ci siete riusciti?
«Io e Mino Maccari andammo dall’allora ministro dei Beni Culturali, il repubblicano Oddo Biasini, per chiedergli di proteggere la Fiaschetteria: lui restò un po’ perplesso se riconoscere o meno lo status di bene culturale a una trattoria…Maccari lo fissò e gli disse: guardi ministro che il fascista Bottai a suo tempo lo fece con una trattoria di Livorno! E così Biasini accettò». 

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