da: Il Venerdì di Repubblica
Ennio
Flaiano
Il battutista
triste che vedeva il futuro
Ricordato
soprattutto per la straordinaria ironia, fu anche un intellettuale preveggente,
come non se ne trovano più. A quarant’anni dalla morte, l’amico Giovannino
Russo ricorda
di Alberto
Riva
Meglio di un rosso d’annata. Come invecchia
bene Ennio Flaiano non invecchia nessuno tra i nostri classici. A quarant’anni
dalla scomparsa, che avvenne il 20 novembre 1972 a Roma, Flaiano continua a
essere citato, letto e materia di appassionata analisi critica. Recentissima è l’uscita di un bel saggio biografico sull’autore
del Tempo di uccidere. L’ha scritto Gino Ruozzi, che insegna all’Università
di Bologna, e si intitola Ennio Flaiano.
Una verità personale (Carocci).
Dal libro emerge uno scrittore per certi
versi inedito, innanzitutto non più quel pigro epigrammista, flaneur abruzzese trapiantato nella Roma
della Dolce Vita che la mitologia ci
ha tramandato fin qui.
In realtà Flaiano era un lavoratore
indefesso, che si divideva tra cinema (sceneggiò decine di film per Fellini,
Antonioni, Rossellini), racconti, poesie, cronache teatrali, articoli e,
certamente, battute fulminanti. Che erano il suo maggior talento e la sua
croce, Non che l’autore di Un marziano a
Roma fosse da meno di chi, come gli accadde, sperduto in un paese del sud
per un servizio, era capace di uscirsene con questa considerazione: «Qui il
problema non è del mezzogiorno, ma della mezzanotte, perché alla sera non c’è
niente da fare!». Erano talmente strepitose le sue battute («chi mi ama mi
precede»…«anime semplici abitano talvolta corpi complessi»…«moriremo prendendo
appunti») che spesso Flaiano viene ricordato solo per quello. Troppo poco.
Anche perché rileggerlo significa scoprire
un occhio lucidissimo, preveggente ai limiti del paranormale su difetti, tare,
caratteri, magagne del nostro presente italiano, se pensiamo che negli anni Cinquanta scriveva: «Questo
Paese un giorno sarà una Repubblica basata sulla televisione». Preziosa
dunque l’uscita del libro, perché Flaiano reclama a gran voce verità personali.
E una personalissima è quella di Giovannino Russo, che di Flaiano fu prima
collega e in qualche modo «allievo» al Mondo
di Mario Pannunzio, e poi amico intimo. E che su Flaiano scrisse un libro
affettuoso e fondamentale per la comprensione del mito: Flaianite.
«Su Flaiano è stato scritto tanto, spesso
basandosi su incontri non avvenuti o ricordi imprecisi» puntualizza il
giornalista, classe 1925, fedele tutt’oggi all’amicizia. «Ho letto il saggio di
Ruozzi e rende molto bene l’idea di quanto fosse complessa e sfaccettata la
personalità di Flaiano».
Cioè?
«L’idea che fosse uno che diceva solo
battute è completamente sbagliata. Certo, quando era in vena non lo fermava
nessuno, però era un uomo malinconico, spesso silenzioso, con i suoi lati
sofferenti. Non a caso il suo amico Mino Maccari l’aveva ribattezzato “redattore
cupo” quando lavoravano insieme al Mondo.
E dopo il fiasco del Marziano a Roma
a teatro fu Maccari a dire: Ennio, l’insuccesso ti ha dato alla testa!».
Lei
lo conobbe nel 1949. Come avvenne?
«Io ero venuto via dalla Lucania e mi ero
laureato a Roma, e poi avevo cominciato a fare il giornalista all’Italia Socialista. Lì conobbi Aldo
Garosci e Carlo Levi, e proprio Levi mi presentò al Mondo, che a quel tempo aveva appena cominciato le pubblicazioni.
Il mio primo articolo lo consegnai a Flaiano. Non mi aspettavo che dopo
quindici giorni sarei stato chiamato. Gli era piaciuto. E subito mi dispensò
una delle sue perle di saggezza: gli articoli si migliorano con i tagli, però
dipende da chi i tagli li fa! Ed era lui spesso a tagliare».
Nel
libro di Ruozzi è riportato un giudizio di Buzzati su Flaiano: dietro la risata
c’era uno scrittore amaro e in fondo tristissimo.
«E’ vero. Era amaro, soprattutto quando si
affrontavano i problemi reali della società italiana. E anche se non si
occupava di politica direttamente, era scrittore civile e impegnato. Come
Pannunzio. Però, a differenza di Pannunzio, che frequentava i politici, lui
dalla politica era annoiato: i loro discorsi, gli interessi, si sentiva un
pesce fuor d’acqua. Quando veniva l’ora di cena, magari Pannunzio andava per
trattorie più di livello con i suoi amici politici. E noi si andava da
Cesaretto, che era più alla mano e un ritrovo di artisti. Flaiano preferiva
stare tra i giovani. E con la gente del cinema».
Cesaretto
non era solo una trattoria, ma un modo di vivere la cultura, no?
«Certo. Flaiano e gli amici assidui istituirono
il “Premio Cesaretto” che veniva assegnato a chi diceva la maggior stupidaggine
della serata. Tanta gente l’ha vinto e nemmeno lo sa! Si contrapponeva alla
ufficialità e alla retorica del premio Strega».
Che
pure Flaiano vinse nel ’47 con Tempo di Uccidere. L’annuncio di un romanziere
che poi non volle ripetersi. Flaiano era orgoglioso?
«Era permaloso, questo sì. Flaiano aspirava
alla perfezione letteraria. I suoi idoli erano Gogol, Cechov, Manzoni. Anche
per Pannunzio, Manzoni era il massimo scrittore, tanto è vero che tra le sue ultime
volontà ci fu quella di essere sepolto con una copia dei Promessi Sposi nella bara. Così avvenne. Pannunzio diceva a noi
giovani: dovete scrivere come Flaubert, cosa che poneva, diciamo, dei problemi
di incontro tra etica ed estetica. Non dovevamo tradire la verità, ma scriverla
bene».
Flaiano
rifiutò un suo pezzo, nel 1950, sull’Anno Santo. Come mai?
«Mi prese da parte e mi disse: guarda
Giovanni, la differenza tra il Mondo
e Momento Sera è minima, ma tu l’hai
superata! Aveva un modo spiritoso anche per dare le brutte notizie. Ci restai
malissimo, per due settimane non scrissi, poi lo rifeci e uscì. Non ho mai capito
cosa non gli piacque, ma aveva ragione: forse era una cronacaccia!».
Le
brutte notizie non facevano piacere neppure a lui, o sbaglio? Quando Prezzolini
stroncò Melampus ci restò malissimo, così come fece Arrigo Benedetti con Oh, Bombay! Gli diedero dello «scrittore
spiritoso».
«Apriti cielo. Ne soffriva, di quell’etichetta,
e non aveva tutti i torti. Lui indulgeva spesso alla battuta, ma era uno
scrittore di grande livello. Soffriva quando non veniva apprezzato il suo
contributo, come accadde con Fellini. Un’amicizia che si ruppe per questo.
Flaiano scherzava sul fatto di aver conservato tutte le caratteristiche degli
abruzzesi, un certo carattere duro. Amava la franchezza. Il suo ideale era la
conversazione, come al Mondo, che
dopo le sei di sera diventava un salotto letterario, c’erano tutti; veniva Corrado
Alvaro con la cronaca teatrale scritta su foglietti trasparenti e la leggeva ad
alta voce! Era l’epoca in cui mi capitava spesso di vedere De Chirico prendere
il suo cappuccino al Caffè Greco. Non c’era distinzione tra scrittori,
giornalisti, artisti. Non c’era l’ossessione della televisione che oggi ha
cancellato tutto. Certe cose contavano, come quando salvammo Cesaretto dal
trasformarsi in una jeanseria».
E
come ci siete riusciti?
«Io e Mino Maccari andammo dall’allora
ministro dei Beni Culturali, il repubblicano Oddo Biasini, per chiedergli di
proteggere la Fiaschetteria: lui restò un po’ perplesso se riconoscere o meno
lo status di bene culturale a una
trattoria…Maccari lo fissò e gli disse: guardi ministro che il fascista Bottai
a suo tempo lo fece con una trattoria di Livorno! E così Biasini accettò».
Nessun commento:
Posta un commento