da: La Stampa
Tra
Savita e la morte
Savita è una giovane dentista indiana che
abita in Irlanda con il marito Praveen, ingegnere. Aspetta un bambino da
quattro mesi quando si presenta in ospedale. Ha dolori atroci alla schiena e la
possibilità concreta di perdere, insieme col figlio, la vita. Al termine di una
notte di scelte non facili, chiede ai medici di interrompere la gravidanza. Le
rispondono che l’Irlanda è un Paese cattolico dove, finché si sente battere il
cuore del feto, non è possibile interrompere niente. Savita non è irlandese e
non è cattolica, ma deve stare alle regole. Soffrire. Aspettare. Il 23 ottobre
il cuore del feto si ferma e i medici lo asportano, ma è troppo tardi. Il 28, a
una settimana esatta dal ricovero, Savita muore di setticemia nell’ospedale
universitario di Galway: in piena Irlanda, in piena Europa, in pieno
ventunesimo secolo.
Mi ostino a sperare che questa storia sia
falsa o almeno incompleta. Che fra il comportamento dei medici cattolici e il
decesso della dentista indiana non ci sia il nesso che traspare dalla denuncia
dell’Irish Times, confermata dal marito della vittima e ripresa dai principali
network del mondo. Ma l’idea che le religioni - associazioni di uomini mosse
dal più nobile degli afflati, quello spirituale - possano ispirare
comportamenti fanatici, superstiziosi e sostanzialmente ottusi non ha purtroppo
bisogno di conferme: è sotto i nostri occhi ogni istante, in ogni angolo del
mondo. Mai come oggi abbiamo bisogno di spiritualità. Mai come oggi non abbiamo
bisogno di fanatici, questi esseri sfocati che vivono di testa e di viscere,
avendo dimenticato che in mezzo c’è un cuore.
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