da: la Repubblica
Un flusso ininterrotto di persone povere
verso i paesi ricchi, questa è sempre stata l’immigrazione. Se perfino dopo
giornate come quella di ieri molti ne parlano con paura, ira, astio, è anche
perché è cambiato fino a snaturarsi, negli anni, il concetto stesso di povertà.
Per secoli la povertà è stata una piaga dalla quale guarire, una condanna alla
quale ribellarsi. Oggi, nella società del benessere obbligatorio, è diventata
una colpa. I poveri, per il nostro sguardo reso grasso e opaco dalla cessazione
della fame, sono colpevoli di povertà. Non è solamente lo spirito del
capitalismo ad avere generato questa colossale e molto funzionale
mistificazione. È una scorciatoia morale, una comodità psicologica che ci
rassicura tutti – mica solo quelli di destra, o i razzisti che ghignano, o i
leghisti che latrano – perché se la povertà è un demerito (e non una condizione
ingiusta, subita per debolezza e sovente inflitta con la prepotenza) allora i
poveri fanno meno pena, e in quei barconi alla deriva, in quegli annegati,
oltre a non riconoscere i nostri avi gracili e spaesati come eritrei che
fuggivano dall’Italia, neppure riconosciamo la ribellione di nostri simili a
una vita grama e infame, dalla quale fuggono esattamente come faremo noi se
fossimo al loro posto.
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