Operazione verità: a che punto è la notte italiana
di Paolo Cardenà
Premessa:
In questi anni di crisi, oltre alle tasse e al disagio economico e sociale, c'è stata un'altra grande costante che
ha tenuto compagnia alle nostre giornate, ai nostri momenti: la menzogna proferita in modo sistematico dai
vari governi e dai politici di turno che, in maniera spudorata e
vergognosa, hanno reiteratamente mentito e mistificato (e continuano a farlo)
circa l'esatta situazione dell'economia e dei conti pubblici, in costante ed
inesorabile deterioramento.
È' chiaro che tutto
ciò incorpora evidenti elementi di criminalità, proprio perché tende ad
alimentare false aspettative nei confronti degli agenti economici più deboli: i
disoccupati con le loro famiglie e le imprese, prime vittime sacrificali di
questa crisi.
Proprio per questo, insieme ad altri siti amici, tra i più
seguiti in Italia di economia, tutti liberi e senza padroni, abbiamo pensato di lanciare,
coralmente, tutti insieme, questo post
divulgativo al fine di far ben comprendere l'esatto stato dei conti
pubblici e dell'economia.
LA MENZOGNA
I grafici che
seguono esplicano in maniera esaustiva i clamorosi errori previsionali
commessi dai vari governi che si sono alternati negli ultimi 3 anni di cirsi,
su Deficit Pubblico, Debito pubblico e Pil Nominale.
Come noto, appena
qualche di settimane fa, il governo ha reso pubblica la Nota di Aggiornamento
al DEF. Per chi non lo sapesse, il DEF è il documento di economia e finanza che
rappresenta il punto nodale nella programmazione della politica economica
e di bilancio del paese. Il punto d’incontro tra politica nazionale e l’Unione
Europea, che incorpora le variabili macroeconomiche e di bilancio che il
governo stima si possano realizzare, stante una crescita presunta del PIL.
Leggendo il documento
licenziato dal governo, la cosa che più lascia perplessi, è dover constatare la
volgarità della menzogna esercitata dal governo, proprio su talune variabili
che risultano manifestamente abbellite, taroccate, per nulla aderenti con la
realtà dei fatti, con l'esatta situazione dell'economia italiana e
dei conti pubblici. Questi ultimi, appositamente “massaggiati” per offrire un
quadro della finanza pubblica migliore rispetto a quello che effettivamente è.
Cerchiamo di andare
nel dettaglio.
LA MENZOGNA SUI CONTI PUBBLICI
La nota licenziata dal
Governo, rispetto al DEF di primavera, con la fine dell'anno ormai alle porte,
recepisce ciò che era ormai chiaro da mesi, più o meno a tutti i commentatori
di buon senso. Ossia che il Pil, anche quest'anno, diminuirà dell'1.7%(?),
posizionandosi a 1.557,3 miliardi di euro, quindi ben oltre l'1.3% previsto
solo a maggio dal governo Monti.
Sul fronte della spesa
pubblica, il governo, proprio con l’intento di esporre un deficit migliore
rispetto a quello reale, da un lato ha aumentato di un miliardo di euro la
spesa corrente (pensioni, stipendi, acquisti); mentre, dall’altro, ha
corretto al ribasso la stima della spesa in conto capitale portandola a 807,6
miliardi rispetto agli 810, 6 precedentemente previsti: quindi, 3 miliardi in
meno di spese che aiuterebbero (secondo il governo) a far rientrare sotto il 3%
lo sconfinamento deficit/Pil.
Ma entrando nel
dettaglio del DEF, si scopre che questo (apparente) miglioramento, è
determinato da artifici contabili, per cui si differiscono all’anno
successivo (cioè al 2014) talune spese in conto capitale originariamente
previste nel 2013, nonostante la spesa per investimenti sia stata fortemente
ridotta in questi ultimi anni proprio per esigenze di bilancio, non considerando
che questa determina anche delle manifestazioni virtuose per il ciclo
economico. E’ ovvio che, se cossi fosse, questa pratica andrà ad impattare sul
fabbisogno del prossimo anno.
Ciò nonostante,
analizzando le spese della amministrazioni pubbliche e proiettando al 31
dicembre il consuntivo realizzato nei primi sette mesi dell’anno -dove sono
cresciute dell’1.8% rispetto allo stesso periodo del 2012- si osserva che
queste, a fine anno, dovrebbero aggirarsi intorno ai 678.5 miliardi di
euro: cioè 6 miliardi in più rispetto ai valori rettificati dal governo nella
nota di aggiornamento.
Sul fronte delle
entrate, a causa dell’aleatorietà dei pagamenti da parte degli agenti
economici, la questione è molto più difficile da interpretare. Anche se i
dati disponibili delle entrate tributarie, per i primi 8 mesi dell’anno,
registrano una diminuzione dello 0.3% rispetto allo stesso periodo del
2012.
Le entrate
contributive, invece, secondo quanto comunicato dalla Ragioneria Generale dello
Stato, nei primi sette mesi dell’anno, si sono attestate a circa 124
miliardi di euro, in flessione dello 0.9% rispetto allo stesso periodo del
2012.
Proiettando a tutto il
2013 i dati sulle entrate tributarie e contributive realizzate nei
primi 9 mesi, dando per certa una copertura del taglio della seconda rata
dell’IMU -in parte assorbito anche dal recente aumento IVA- e, in via del
tutto prudenziale, ipotizzando comunque un miglioramento dell’andamento
delle entrate, è verosimile ritenere, a fine anno, un minor gettito che
oscilli tra +0,1 e +0,4% per le entrate del 2013 sul 2012, ad un valore
tra 755 e 757 miliardi di Euro, contro 759 preventivati, con un ammanco tra 2,0
e 4,0 miliardi.
Quindi in estrema
sintesi, alla luce di quanto sopra esposto, si potrebbe ritenere del tutto
verosimile un deficit, a fine anno, oscillante tra il 3.4% e il 3.6%, cioè dai
4 ai 6 miliardi in più rispetto ai 48.7 miliardi stimati dal governo nella nota
di aggiornamento, con un debito pubblico prossimo al 134% contro li stima del
governo al 132,9%
In buona sostanza, è
questo il quadro di finanza pubblica che, con ogni probabilità, ci attenderà da
qui a fine anno, salvo ulteriori manovre correttive o giochi di prestigio per
esporre un deficit inferiore al 3%. Ma in uno scenario come quello descritto,
nel quale si balla proprio ai limiti, nonostante la manovra di contenimento di
1.6 miliardi di euro varata lo scorso 10 ottobre, molto dipenderà dalla
crescita economica dell’ultima parte dell’anno e dalle entrate tributarie degli
ultimi mesi, anche se, a parer di chi scrive, i margini di ottimismo
sembrano piuttosto ridotti, se non addirittura inesistenti.
COME TAROCCARE LE PREVISIONI SULLA SPESA PER INTERESSI
Ma andando oltre,
sempre nel DEF, e sempre a proposito dell’inattendibilità delle stime
governative, si scopre che, sul fronte della stima della spesa per
interessi, il tandem Letta-Saccomanni, compiono una vera e propria manovra di
prestigio, degna di Mago Otelma.
Tanto per renderci
conto di cosa stiamo parlando, vi propongo questa tabella che riepiloga la
stima della spesa per interessi dal 2014 al 2017: sulla prima riga quella
effettuata dal Governo Monti, sulla seconda quella del Governo Letta con la
nota di aggiornamento al DEF.
Stima Spesa per
interessi Gov. Monti vs Gov. Letta . (dati in migliaia di euro)
|
||||
2014
|
2015
|
2016
|
2017
|
|
Def . Maggio 2013- MONTI
|
90377
|
97465
|
104384
|
109289
|
Agg. Def settembre- LETTA
|
86087
|
88827
|
91858
|
92500
|
RISPARMIO
|
4290
|
8638
|
12526
|
16789
|
Come è facile intuire,
già dal 2014, fino ad arrivare al 2017, il governo Letta stima un robusto e
progressivo risparmio per la spesa per interessi, fino a giungere, nel 2017,
appunto, a oltre 16 miliardi di euro, equivalenti ad 1 punto percentuale del
Pil. E' chiaro che queste presunte economie determinano un miglioramento dei
saldi di finanza pubblica.
A questo punto
occorrerebbe chiedersi perché il governo stimi una riduzione così significativa
del costo per interessi, o secondo quale parametro. Prima di dare una risposta
all’interrogativo, è bene precisare che, come giustamente segnala il Prof.
Gustavo Piga nel suo blog, ormai da oltre 15 anni a questa parte, o
meglio fino all’ultimo DEF dello scorso maggio, le previsioni di stima della
spesa per interessi venivano “formulate utilizzando i tassi impliciti nella
curva dei rendimenti italiana rilevati a metà marzo 2013….”. In
buona sostanza si tratta(va) di un criterio riconosciuto dalla comunità
scientifica e finanziaria, che traeva fondamento proprio dall’analisi della
curva dei tassi in un determinato periodo temporale.
Con la nota di
aggiornamento, il governo cambia paradigma. Infatti, sul documento,
la stima della spesa per interessi fonda la sua previsione su una
“ipotetica e una graduale chiusura degli spread di rendimento a dieci anni dei
titoli di stato italiani rispetto a quelli tedeschi a 200 punti base nel 2014,
150 nel 2015 e 100 nel 2016 e 2017”. Cioè, per dirla in parole più semplici, il
costo degli interessi sarebbe destinato a scendere in ragione di una ipotetica
diminuzione degli spread.
Siamo quasi al
demenziale o, se preferite, al dilettantismo, poiché, un analisi di questo
genere, è priva di qualsiasi fondamento, non solo scientifico, ma anche logico.
Invero, va precisato che un calo dello spread non significa automaticamente una
diminuzione dei costi al servizio del debito (interessi). Infatti, lo spread,
altro non è che una variabile che misura la differenza tra il rendimento Btp
decennale e quello del bund tedesco: anche quest’ultimo soggetto a
variare in ragione di una moltitudine di variabili economiche e di mercato.
Ne consegue, in
maniera peraltro del tutto ovvia, che se diminuisce lo spread, ma al tempo
stesso aumenta il rendimento del bund, l’aumento del titolo tedesco vanifica in
tutto o in parte il beneficio prodotto dal ripiegamento dello spread . Da ciò
se ne deduce che se ad un eventuale aumento del rendimento del Bund, non si
contrappone un calo più che proporzionale dello spread, il costo del debito
aumenta anziché diminuire. Questo, banalmente, per significarvi che la stima
fatta dal governo per quantificare la spesa per gli interessi, oltre ad essere
infondata nel metodo, lo è anche logicamente.
Detto ciò, con ogni
probabilità, ciò che induce il governo a ritenere un ripiegamento dello spread
nei confronti del titolo tedesco, verosimilmente, risiede proprio nelle
previsioni di crescita del PIL, dal 2014 al 2017, a parer di chi
scrive, fin troppo ottimiste, o meglio non realizzabili.
Il perché dovrebbe
esser chiaro. Infatti tanto più la crescita si dimostrerà (almeno sulla carta)
vigorosa, tanto più i conti pubblici si stabilizzeranno verso sentieri di
maggiore sostenibilità (sempre sulla carta) e, di conseguenza, aumenterà anche
la fiducia degli investitori nei titoli del debito pubblico, determinando anche
un ripiegamento dello spread, magari allineandosi (??) alle previsioni
elaborate dal governo nel DEF. Quindi, un rientro dello spread a 100 punti
base, in ragione della crescita esponenziale del PIL esposta nel DEF, potrebbe
essere verosimile. Ma ciò che non lo è, sono le previsioni sul PIL.
A PROPOSITO DELLE PREVISIONI FANTASIOSE SULLA CRESCITA
Ecco, il punto è
proprio la crescita economica.
E’ proprio qui che il
governo commette una vera e propria indecenza, proiettando stime che, non senza
difficoltà e fantasia, potrebbero semmai essere ospitate nel libro dei sogni,
nonostante, nel corso degli ultimi 14 anni ed oltre, il PIL dell’Italia sia
cresciuto mediamente ad un livello ben inferiore (oltre 1%) rispetto alla media
UE27
Ad ogni buon conto, la
Nota di Aggiornamento al DEF si fonda su una dinamica di tassi di
crescita del Pil dal 2014 al 2017 decisamente ottimista:
·
2014 +1,0%;
·
2015 +1,7%;
·
2016 +1.8%;
·
2017 +1.9%.
Cioè, una crescita
molto più robusta di quella mediamente prodotta negli ultimi 13/15 anni,
ascrivibile, secondo il DEF, all'impatto (positivo) che dovrebbe produrre le
riforme varate dai governi negli ultimi anni. Che poi, quali sarebbero queste
riforme, sfugge del tutto.
In pratica, una
crescita ben superiore a quella prevista da altre istituzioni finanziarie
internazionali (es FMI) che appaiono comunque fuori dalla portata dell'Italia,
almeno nel contesto che andremo tra poco a chiarire.
E' chiaro che gonfiare
ad arte una previsione di crescita per i prossimi anni, in visione prospettica,
rende il quadro di sostenibilità delle finanze pubbliche assai più roseo
rispetto a quello che altrimenti sarebbe. Per il semplice fatto che, ampliare
la base imponibile (maggiore PIL), ha come ovvia conseguenza anche un aumento
delle entrate fiscali, determinando un miglioramento dei deficit, senza che ciò
derivi da un inasprimento delle aliquote.
E questo favorirebbe
anche un maggior interesse nell'acquisto del debito italiano anche da parte
degli investitori, che comunque sanno (o meglio dovrebbero sapere) che si
tratta di previsioni di crescita del tutto irrealizzabili. Anche perché, se
fosse lo stesso governo a disegnare una quadro di sostenibilità delle finanze
pubbliche a tinte fosche (cioè più verosimile alla realtà), chi mai avrebbe
interesse ad investire sul debito pubblico italiano, se non con un rendimento
che incorpori anche un maggior premio di rischio?
Quindi, banchieri
compiacenti, ancorché conoscano (o quantomeno lo sospettino) che i dati sulla
crescita siano del tutto inverosimili, acquistano ugualmente il
debito pubblico. Perché sanno che il governo, all'occorrenza e in caso di
necessità, in virtù dell'autorità che ha di imporre tasse -nelle forme più
fantasiose possibili, patrimoniali comprese- sarà sempre disponibile ad
intermediare ricchezza (quella degli italiani, nello specifico)e ripagare il
debito nei confronti degli investitori.
Ma siccome il Governo ben conosce che i dati sono del tutto dissociati dalla realtà e che si tratta di ipotesi irrealizzabili, destinate a naufragare aprendo buchi nel bilancio dello stato, anticipa gli eventi. Quindi vara una nuova manovra in modo che, quando ci si accorgerà del naufragio delle previsioni di crescita, tutto sarà già più o meno sotto controllo. Perché, è chiaro: le clausole di salvaguardia servono proprio a questo. Salvo ulteriori manovre e quindi altre tasse.
Ed è quello che, in buona sostanza, è stato fatto nei giorni scorsi varando la Legge di Stabilità, della quale parleremo più diffusamente in prossimo articolo.
Ma tornando al fattore
crescita economica, vorrei proporvi un breve ragionamento, di buon senso, per
farvi ben comprendere quanto siano infondate le previsioni di crescita
formulate dal governo. Ragionamento che, per certi versi, esula dalla solita
prospettiva approcciata dagli economisti su tali tipi di analisi. Nulla di
complesso e particolarmente difficile.
Per comprende di cosa
stiamo parlando, è bene fare un breve excursus su ciò che è stata la crescita
italiana negli ultimi 13 anni, ossia dall’introduzione dell’euro. Ragioneremo
in termini nominali. Cioè non considerando l’effetto inflazione che si è
manifestata nel periodo considerato e che, comunque, giova ricordare, è stata
di circa il 30% dal 2000 al 2013.
Come è facile
osservare, in tutto il periodo considerato, l’Italia è cresciuta in maniera del
tutto asfittica: certamente non in sintonia con le proprie necessità, e,
mediamente, come evidenziato in precedenza, ben oltre un punto percentuale
annuo in meno rispetto alla media dei pausi UE27. Nel frattempo, il debito
italiano ha conosciuto ritmi di crescita molto più sostenuti, con una
drammatica accelerazione proprio dal 2008 in poi. Ossia con l'esplosione
della crisi che ha determinato, ad esempio, un maggior esborso da parte dello
Stato per sussidi di disoccupazione, o per la partecipazione ai vari piani di
salvataggio condotti nel cotesto europeo.
Tant'è che, dal 2000
in avanti, il debito pubblico non è mai sceso sotto il 103% del Pil -quando i
parametri di Maastricht lo vorrebbero confinato al 60% del prodotto
lordo- con un'accelerazione vertiginosa proprio nell'ultimo quinquennio.
Fino a giungere, alla
fine del 2013, a ridosso del 134% del Pil. Circa 2090 miliardi di euro, a
fronte dei un PIl appena sopra ai 1550 miliardi di euro.
Tanto per offrirvi
l'idea dell'accelerazione subita dal debito pubblico, giova ricordare
che, da fine 2011 ad oggi, il debito è cresciuto di circa 170 miliardi, ossia
oltre l'8% dello stock totale.
Arrivati a questo
punto, è il caso di ricordare che dal 2015, l'Italia, in applicazione del
Fiscal Compact, per i prossimi 20 anni, dovrà procedere ad una riduzione del
debito pubblico di 1/20 all'anno in ragione del PIl, al fine di confinare il
debito entro il 60% imposto da Maastricht. Per sostenere l'abbattimento del
debito pubblico in un percorso così impegnativo, la condizione necessaria
è che il PIL nominale cresca di almeno il 3% per i prossimi 20 anni. In modo
tale che -confida il governo- una volta stabilizzato, il debito possa rientrare
in maniera quasi automatica. Questa condizione imprescindibile, benché sulle
previsioni del governo sia soddisfatta, appare del tutto irrealizzabile, almeno
per i prossimi anni.
Ritornando alla
dinamica del PIl dal 2000 in avanti, giova segnalare che questo è
passato dai 1191 miliardi dell'anno 2000, fino ai 1567 miliardi del 2008. Per
poi flettere ai 1520 miliardi con la recessione del 2009, e riprendersi nel
2011, fino a giungere ai 1580 miliardi e per poi flettere nuovamente nel 2012 e
2013, fino ad attestarsi, secondo le stime DEF, ai 1557 miliardi del
2013. Da ciò se ne deduce che il PIl, negli ultimi 14 anni (comprendendo
anche in dato del 2013, indicato nel DEF a 1557 miliardi) è cresciuto di
appena 366 miliardi di euro nominali: ossia solo del 30.74%, appena poco sopra
il livello di inflazione cumulata nello stesso periodo. Ossia, non è cresciuto
in termini reali.
Secondo le previsioni
riportate nel DEF , già dal 2014, il Pil salirà a 1602 miliardi, per poi
passare a 1660 nel 2014, 1718 nel 2016 e 1779 nel 2017.
Cioè ben 222 miliardi
in più rispetto ai livelli di fine 2013 (quasi il 15% in più), che
rappresentano circa il 60% della crescita realizzata negli ultimi 13 anni.
Tutto questo è riscontrabile dal grafico (1) sopra esposto, dove dal 2014
in poi, secondo le previsioni del DEF, si assiste ad un irripidimento della
curva del PIL nominale, che incorpora tassi di crescita medi nel quadriennio di
oltre il 3% annuo.
A questo banale
ragionamento, si potrebbe obiettare che è sostanzialmente insensato paragonare
la crescita del PIL nominale in due periodi temporali differenti, senza
considerare gli effetti inflattivi acquisiti, che hanno comunque contribuito
ad una maggiore crescita dal PIL nominale. Vero: osservazione
ineccepibile. Ma che non cambia di molto le previsioni troppo ottimistiche
fatte dal governo, atteso che le previsioni sull’inflazione sembrano anch’esse
fuori dalla realtà, stante anche la persistente debolezza dei consumi che si
protrarrà anche nei prossimi anni, spingendo al ribasso anche le previsioni
sull’inflazione. Di conseguenza, con un inflazione che verosimilmente sarà
destinata a rimanere al disotto delle previsioni, la performance del PIL
nominale appare ben al disopra di ogni ragionevole previsione.
CONDIZIONI ECONOMICHE OPPOSTE
A conferma dello
scenario sopra evidenziato e di quanto siano inverosimili le previsioni di
crescita del PIL elaborate dal Governo, giova ricordare che nel periodo
considerato, almeno fino al 2007, si sono verificate eccellenti condizioni di
crescita nelle aree economiche più importanti del mondo, che, indubbiamente,
hanno trainato la crescita italiana, con un export particolarmente dinamico.
In questo periodo, al
netto delle distorsioni prodotte, si è assistito anche ad un abbondanza
di credito che è stato riversato nell’economia, determinando una fase virtuosa
del ciclo economico.
La facilità di accesso
al credito ha consentito agli operatori economici il finanziamento delle
proprie attività e dei propri bisogni: le imprese hanno potuto investire in
opifici, capannoni, immobili, attrezzature, macchinari e ricerca. Mentre le
famiglie ed i privati, nell’acquisto di case, automobili, o altri beni
durevoli. E’ evidente che dinamiche di questo tipo abbiano avuto un
enorme impulso sullo sviluppo economico del periodo considerato, determinando
fenomeni virtuosi anche nella disoccupazione, che ha conosciuto livelli
minimi proprio nel 2007, al 6.1%.
E’ fuori da ogni
dubbio che queste condizioni abbiano contribuito significativamente alla
crescita del PIL che, tuttavia, ricordiamo, è stata ben al disotto della media
europea e delle necessità del paese.
Ad oggi sembra di
vivere in un altro mondo.
Le desertificazione
economica prodotta dalla crisi e dalle politiche di austerity è sotto gli occhi
di tutti, soprattutto nella monotonia delle tasche degli italiani.
La disoccupazione
è doppia (oltre il 12%) rispetto ai tassi minimi del 2007, mentre quella
giovanile ha superato la soglia del 40%, con punte ben superiori al 50% in
alcune zone del sud. Tuttavia, il tasso di disoccupazione indicato dalle
statistiche oltre il 12%, non racconta affatto l'esatta drammaticità della
piaga della disoccupazione, poiché non tiene conto di chi ha smesso di cercare
lavoro o di chi è sottoccupato.
Non tiene
neanche conto delle centinaia di migliaia di persone che ancora godono della
cassa integrazione e che sono in forza ad aziende che non avranno mai la
possibilità di riemergere da questa situazione. Se di considerassero anche
queste variabili, il dato sarebbe proiettato ben oltre la soglia del 20%.
Inoltre, rispetto al
periodo che potremmo chiamare “delle vacche grasse” (2000-2007, N.d.r.),
il reddito procapite reale è precipitato ai livelli che non si vedevano da
oltre un quindicennio. La capacità dei spesa della famiglie, anche a causa
dell'inasprimento fiscale di questi ultimi anni, ha subito un drammatico
tracollo. Decine di migliaia di imprese hanno cessato la loro attività, hanno
chiuso i battenti o si sono delocalizzate in aree geografiche ove risulti più
conveniente fare impresa.
La pressione fiscale
ha raggiunto livelli record, ben superiori a quelli conosciuti fino al 2007.
Ancora: le banche sono
alle prese con sofferenze record che si attestano ad oltre quota
140 miliardi di euro. Queste, sono almeno quelle ufficiali. Poi ci sarebbero anche
quelle non ancora emerse, che le banche cercano di mantenere latenti più a
lungo possibile. Stando la fragilità del sistema bancario (solo per usare un
eufemismo), appare del tutto improbabile che le banche possano tornare ad
allargare i coroni della borsa e sostenere un ciclo economico, ancorché
trainato da altre economie mondiali che comunque,pur mostrando segnali di
maggior ottimismo,sono ben lontane dai fasti del periodo “delle vacche grasse”.
Nel contesto europeo,
invece, giova segnalare che molte economie sono alle prese con percorsi
di rientro dai deficit che chiaramente impattano sul ciclo economico di quelle
nazioni e, conseguentemente, anche nella componente export del PIL italiano.
Queste sono solo
alcune delle variabili economiche fortemente deteriorate che non possono
che aggravare le previsioni di crescita per il prossimo futuro, rendendo gli
sforzi previsionali del governo del tutto inattendibili.
E’ chiaro che
queste variabili -che costituiscono solo una minima parte di quelle che si
potrebbero considerare ai fini della nostra analisi e che confermerebbero
comunque il nostro ragionamento-, stando la persistente fragilità, non
potranno contribuire alla crescita del PIL, come invece avvenuto in passato nel
periodo di crescita economica.
Eppure, questo
ragionamento, che non ha ben poco di dottrina economica, sembra sfuggire
del tutto al governo che ipotizza previsioni di crescita fuori da ogni logica
di buon senso.
Di conseguenza non si
comprendono le ragioni per cui il PIL, nei prossimi 4 anni, debba cresce in
maniera così esponenziale come, invece, prevede il governo.
Per dirla in maniera
prosaica, potremmo chiederci: ALLA LUCE DELLA DEVASTAZIONE ECONOMICA
INTERVENUTA, PERCHE MAI L’ECONOMIA ITALIANA, NEI PROSSIMI 4 ANNI, DOVREBBE CRESCERE
IN MANIERA BEN PIU’ SOSTENUTA RISPETTO A QUANTO AVVENUTO NEI PRIMI 8 ANNI DEL
SECOLO, IN CONDIZIONI IMPARAGONABILI RISPETTO ALLE ATTUALI?
La risposta è
semplice. Ossia non esiste nessun elemento che possa confermare i livelli di
ottimismo profusi dal governo, posto il fatto che, l’Italia, in questa
crisi, ha perso anche una buona parte della capacità di reazione ad agganciare
cicli economici favorevoli, ancorché indotti da altre economie trainanti.
In altre parole, a
parer di chi scrive, l’Italia si trova a vivere un’epoca di declino
economico e sociale di lungo periodo, dalla quale uscirne non sarà affatto
facile, se non impossibile, permanendo simili condizioni.
In una situazione come
quella descritta, con un cambio non rappresentativo dei caratteri di
debolezza strutturale dell’economia italiana, invertire la tendenza,
verosimilmente, sarà del tutto improbabile.
Nella condizione
attuale, l’ipotesi che appare più verosimile è quella secondo la quale
l’’Italia si troverà ad alternare periodi recessivi, con periodi di bassa
crescita ( stagnazione), in un percorso altamente allarmante e distruttivo che
determinerà:
·
Declino inarrestabile
del sistema produttivo manifatturiero italiano;
·
Aumento della
disoccupazione e crescita del paese da sognare per lungo tempo;
·
Impoverimento continuo
delle famiglie, della classe media e poi anche degli altri;
·
Collasso del welfare
attuale perché insostenibile.
Il presente articolo e’ stato redatto grazie alla collaborazione di vari autori e pubblicato da una serie di Top Blog Italiani che si occupano di Economia.
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