da: la Repubblica
La prima legge di stabilità della Grande
Coalizione all’italiana riflette i limiti della strana maggioranza che l’ha
prodotta. Non si può giudicare rivoluzionaria: non aggredisce il Leviatano
della spesa pubblica improduttiva e non aziona le leve di un’economia
competitiva. Ma non si può neanche definire rinunciataria: azzarda qualche
timido tentativo di introdurre politiche redistributive senza alimentare
ulteriori dinamiche recessive. Il risultato è una manovra di mantenimento. O di
galleggiamento, secondo i punti di vista.
Ci mette «al sicuro con l’Europa » (e
questo il premier Letta fa bene a rivendicarlo). Ma non «ci porta fuori dalla
recessione» (e questo il ministro Saccomanni esagera a sottolinearlo). Con
questo pacchetto di misure da 11,6 miliardi non abbandoniamo il sentiero
stretto del rigore, perché con un debito pubblico che viaggia al 135% nei
prossimi tre anni non possiamo permettercelo. Ma non imbocchiamo la via larga
dello sviluppo, perché con una caduta di Pil del 9% negli ultimi cinque anni
servirebbe tutt’altro coraggio. La Finanziaria delle Larghe Intese brilla
soprattutto per quello che non c’è (cioè i malefici che evita) piuttosto che
per quello che c’è (cioè ibenefici che porta).
Non c’è la temuta «stangata» sulla sanità,
e di questo va dato atto al presidente del Consiglio che se ne intesta il
merito. Un salasso di 4 miliardi di tagli ulteriori sarebbe stato
obiettivamente insostenibile. Questa è una voce del Welfare in cui si spende
malissimo ma non tantissimo (9,3% del Pil in Italia, contro il 12% dei Paesi
Bassi o l’11,6% di Francia e Germania), e in cui l’ideologismo dei tagli
lineari decisi negli ultimi dieci anni dai governi Berlusconi-Tremonti ha fatto
danni incalcolabili (come del resto è accaduto anche sull’istruzione e la
ricerca). Ma aver evitato questo ennesimo atto di macelleria sociale non basta
a «qualificare» la manovra.
Si coglie qua e là una ricerca di
soddisfare il bisogno crescente di equità che monta nel Paese. Ma è quasi
rabdomantica, e in alcuni casi contraddittoria. Anche qui, pesano chiaramente
le diverse costituency politico- elettorali dei partiti di governo, che
frappongono veti incrociati e giustappongono richieste. Senza elaborare una
sintesi avanzata, senza enucleare una priorità definita. L’esempio più lampante
è la seconda rata dell’Imu: quest’anno non la verseremo perché così ha preteso
il Cavaliere nel «patto costitutivo» del governo, ma l’anno prossimo la
pagheremo con gli interessi. Cambierà solo il nome, ma non la sostanza: si
chiamerà «Trise», e costerà in media 370 euro a famiglia. Un altro esempio è la
tassazione del capitale: manca la forza di ripensare in modo definitivo la
struttura squilibrata del prelievo sulle rendite finanziarie (tuttora colpite
con aliquote pari alla metà esatta di quelle che gravano sul lavoro). Ma si
supplisce con l’ulteriore inasprimento della «patrimonialina » sui bolli del
deposito titoli.
Manca la determinazione di rimodulare il
perimetro dello Stato sociale, allargandolo dove serve e restringendolo dove si
può, ma si concede qualche risorsa aggiuntiva al Fondo dei non autosufficienti,
alla Social card e alla cassa integrazione in deroga. Manca la fantasia di
strutturare una fiscalità di vantaggio per i nuclei familiari, ma si prolungano
gli eco-bonus sull’energia e sulle ristrutturazioni immobiliari. Si introduce
un contributo di solidarietà sulle pensioni più alte, ma si impongono nuovi
sacrifici al pubblico impiego, sul quale non si interviene con una riforma
radicale volta a un vero recupero di efficienza (come ci sarebbe un disperato
bisogno), ma con un altro giro di vite sui rinnovi contrattuali e sulle
prestazioni straordinarie (come nella peggiore tradizione forzaleghista).
Il risultato di questa complessa alchimia
politico-finanziaria ha almeno il pregio di non essere una «mannaia» sulla
testa dei contribuenti. Su questo non si può dare torto a Letta. Ma se non c’è
la stangata, appunto, purtroppo non c’è neanche la «frustata ». Gli stimoli
allo sviluppo si intuiscono, ma sono obiettivamente modesti. «Pagheremo meno
tasse», dicono in coro premier e vicepremier. Ma non ce ne accorgeremo, se lo
sgravio si sostanzia in un calo della pressione tributaria di meno di un punto
di Pil nel prossimo triennio. E qui c’è il limite più serio di questa manovra.
La grande operazione di abbattimento del cuneo fiscale è deludente. E ancora
una volta, nell’affannosa mediazione tra le pressioni dei sindacati e le
pretese di Confindustria, non vince nessuno, e rischiano di perdere tutti.
Il taglio vale sì 10 miliardi, diviso tra
imprese e lavoratori, com’era stato annunciato. Ma sarà spalmato sull’arco dei
tre anni. Questo vuol dire che in una busta paga da 15 mila euro di reddito
medio, per il 2014, arriveranno poco più di 100 euro di aumento delle
detrazioni all’anno. Meno di 10 euro al mese. Il costo di una napoletana in
pizzeria, o di dieci cappuccini al bar. La stessa cosa vale per gli sgravi Irap
sui neo-assunti a beneficio delle imprese, che varranno 15 mila euro l’anno per
ogni nuovo contratto stabilizzato. Alla fine prevale la stessa logica,
falsamente egualitaria, che condannò l’operazione sul cuneo fiscale compiuta
dal governo Prodi nel 2006/2008. Meglio di niente, ma non generò un solo centesimo
di punto in più di prodotto lordo. Non è così che si sostengono i consumi e si
rilanciano gli investimenti.
Questa è la vera occasione mancata.
Annanzitutto che per un esecutivo «anomalo» come quello di Letta e Alfano. Ma
era inutile illudersi troppo. Nelle condizioni date, mai come questa volta
l’obiettivo della legge è quello di garantire ciò che recita il suo «titolo»:
la stabilità. Probabilmente non più de-crescita, ma certamente non ancora
crescita. Solo stabilità. Stabilità dei conti pubblici, che in questo momento è
specchio e garanzia degli equilibri politici. Tutto questo soddisferà i
«governisti» dei due poli. Piacerà alla matrigna Europa, e forse anche ai
mercati tiranni. Per carità, non è poco. Ma agli italiani serve molto di più.
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