‘Ndrangheta, in un libro le sofferenze di Lea
Garofalo prima di essere uccisa
'La
scelta di Lea' di Marika Demaria ripercorre gli anni difficili del programma di
protezione e della testimonianza della figlia Denise al processo in cui sono
stati condannati all'ergastolo 4 uomini. Una storia di criminalità organizzata
e di dubbia presenza dello Stato
di Stefania
Prandi
Lea Garofalo è stata una donna coraggiosa:
stanca di vivere fin dall’infanzia in un contesto di ’ndrangheta, ha rotto con
il marito e con la famiglia di origine ed è diventata testimone di giustizia.
Scelte che ha pagato con la vita. Il 24 novembre del 2009 è stata infatti
sequestrata, uccisa con un colpo di pistola e bruciata. Di lei sono rimasti
2.800 frammenti ossei, in tutto un chilo e trecento grammi. Per l’omicidio sono
stati condannati all’ergastolo quattro uomini. Tra loro Carlo Cosco, ex
compagno della donna e padre della figlia Denise.
La vicenda di Lea Garofalo – che racchiude
in sé molte contraddizioni della società italiana – viene raccontata con cura e
passione da Marika Demaria, giornalista del mensile Narcomafie e referente
dell’associazione Libera per la Valle d’Aosta, nel libro La scelta di Lea. Il testo
sarà in libreria dal 19 ottobre, giorno dei funerali pubblici di Lea Garofalo a
Milano, e ripercorre gli anni difficili e solitari del programma di protezione,
le testimonianze sui traffici di stupefacenti e gli omicidi tra Calabria e
Lombardia, le arringhe degli avvocati difensori, la testimonianza della figlia
Denise (ora sotto protezione) contro il padre, gli zii, il fidanzato.
Dall’inchiesta di Demaria emerge una realtà
fatta di criminalità organizzata e dubbia presenza dello Stato. Lea Garofalo e
la figlia Denise, hanno infatti goduto della protezione testimoni per alcuni
anni, ma nel 2006 sono state espulse. Dopo aver fatto ricorso al Tar sono state
reintegrate ma dopo qualche mese sono uscite per volontà di Lea. “Una decisione
difficile, sofferta, dettata dall’amarezza, dallo sconforto per avere capito
che la sua coraggiosa scelta non ha portato a nulla, se non alla vita solitaria
– si legge nel libro. – Le dichiarazioni di Lea non sono state la miccia per
innescare un processo, per vedere i Cosco dietro le sbarre. Niente di tutto
questo”. Come ha spiegato Enza Rando, avvocata di Libera, nella
deposizione,“Lea lamentava che a volte quelli del Nop (Nucleo operativo di
protezione, nda) la trattavano come una mafiosa, mentre lei era una testimone di
giustizia e non aveva commesso reati. In generale era stanca della vita durante
il programma per i continui cambi di città. E poi si era sentita molto
amareggiata e tradita per il fatto che, dopo la non ammissione al programma
definitivo, le avevano detto che entro quindici giorni avrebbe dovuto lasciare
la casa. Era disperata. Non sapeva dove andare”.
Nell’inchiesta della giornalista di
Narcomafie non mancano i particolari inquietanti. Come quello che riguarda un
episodio avvenuto il 20 novembre 2004, quando Lea e la figlia erano ancora nel
programma di protezione. Gennaro Garofalo, un lontano parente, molto amico di
Vito Cosco (fratello dell’ex compagno di Lea, condannato anche lui
all’ergastolo), “va alla stazione dei carabinieri di Lissone, nella provincia
di Monza e Brianza. Non deve sporgere denuncia. Non deve prendere servizio. O
perlomeno non più. Il ragazzo era infatti un ausiliario dei carabinieri, ma si
era congedato tre giorni prima”. Va lì con la scusa di un saluto e “riesce ad
utilizzare il pc di un collega, impegnato in un’operazione esterna, per cercare
la città dove vive Lea inserendo la password che era stata appuntata su
un’agenda riposta in un cassetto non chiuso a chiave”.
Nel testo appare in continuazione l’ombra
della ‘ndrangheta anche se, come scrive Nando dalla Chiesa nell’introduzione,
durante il processo “non è stato contestato l’articolo 416 bis del codice
penale, l’associazione di stampo mafioso. Davvero è stato un delitto privato,
interno a una famiglia che si è sentita disonorata?”. Certo, Lea è stata una
donna che ha affermato il proprio diritto all’indipendenza, contestando anche
la patria potestà, portandosi via la figlia. Ma la sua è stata una vicenda
privata? Secondo dalla Chiesa “si è affacciata in realtà nel processo una
tendenza piuttosto diffusa nella magistratura settentrionale. E cioè la
convinzione del fatto che per condannare per associazione mafiosa al nord
occorrano più elementi di quanti ne occorrano nelle regioni a insediamento
tradizionale. Quasi che fatichino a svanire i vecchi pregiudizi secondo cui
‘qui la mafia non esiste’ o ‘qui non si fanno le stesse cose che al sud’”.
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