da: la Repubblica
Lea
sepolta fra i milanesi illustri il diario segreto: “Io, lasciata sola”
I
funerali della donna bruciata dai boss. Don Ciotti: testimone di verità.
di Attilio
Bolzoni
Riposa
in pace fra i cittadini “noti e benemeriti” di Milano.
Accanto all’urna di Enzo Tortora, sopra quella dell’attrice Lina Volonghi,
sotto quella di Lorenzo Bigatti in arte Renzo Palmer. C’è anche lei: Lea
Garofalo, bruciata dai boss. Con rispetto la città di Milano saluta poco dopo
mezzogiorno la donna calabrese che ha sfidato la ’ndrangheta, la sua famiglia,
la tribù dove volevano costringerla a vivere e che poi l’ha uccisa senza pietà
perché non era ubbidiente alla legge dei Cosco, la legge degli infami.
Cimitero monumentale, ossario D, i loculi
dei milanesi illustri. Pittori. Ambasciatori. Ballerine della Scala.
Partigiani. Poeti. Cantanti lirici. Scrittori. Eroi della battaglia di Custoza.
Quattro uomini, cinque donne e quattro agenti del servizio di protezione del
ministero dell’Interno circondano Denise, la figlia di Lea Garofalo, testimone
di giustizia come sua madre che non c’è più. Don Luigi Ciotti l’accarezza,
l’abbraccia. E chiede a tutti: «Ciascuno di voi dica in questo momento una
parola, solo una parola». Denise è davanti ai resti della mamma. Sussurra il
primo: «Calabria». Un altro: «Grazie». Un altro: «Scusaci ».
Un’altra: «Forza».
Un’altra: «Ti voglio bene». Lei, la piccola che ha visto morire la madre e che
sarebbe dovuta morire anche lei per mano del padre, si aggrappa a don Luigi e
poi con un soffio di voce: «Io dico vita, vita». È finito con queste parole di
una ragazzina smarrita eppure tanto felice di esistere com’era e com’è ancora —
e che è già diventata il simbolo di una piccola grande rivolta italiana — il
funerale laico e solenne che la capitale lombarda ha dedicato a una vittima di
mafia. A lei e a questa figlia che è sopravvissuta alle atrocità dei Cosco di
Petilia Policastro, intruglio fra malavita e macelleria, vendicatori che in un
giorno di novembre del 2009 hanno dato fuoco a Lea Garofalo solo perché non si
considerava più di loro proprietà. È finito in una grigia giornata milanese
l’ultimo atto di una tragedia cominciata quattro anni fa e che doveva restare
avvolta nel silenzio, sepolta in una Milano che avrebbe dimenticato Lea e
Denise — questo immaginavano i Cosco — perché erano niente, non contavano
niente, erano solo due disperate di un Sud lontano (apparentemente lontano) che
potevano schiacciare quando e come volevano. I Cosco, vigliacchi, oggi si sono
trovati contro una Milano che li ha svergognati davanti a tutti. E ha riservato
a quella giovane madre un posto vicino ai suoi grandi.
Piazza Beccaria, un carro funebre
attraversa la folla. Il sindaco Pisapia, don Ciotti, amministratori comunali e
provinciali sono lì fra gonfaloni e alte uniformi. Il carro funebre è vuoto,
punta verso un cimitero lontano per depistare le telecamere. Qualche minuto
dopo un’auto civile parte per il Monumetale, con la teca di zinco e dentro i
resti di Lea Garofalo. Ancora sventolano nella piazza a due passi dal Duomo le
bandiere di Libera e ancora riecheggiano le parole di sua figlia Denise — da un
“luogo segreto”, una stanza del Comune — con la voce tremante: «Per me è un
giorno triste, ma la forza me l’hai data tu… se è successo tutto questo è solo
per il mio bene e non smetterò mai di ringraziarti. Ciao». Ciao a Lea e ciao a
tutti quelli che sono qui in piazza Beccaria.
Fiori rossi e gialli, di tutti i colori
spediti da Vittoria, Sicilia. Canti sacri e Vinicio Capossela, Franco Battiato,
Vasco Rossi, Rino Gaetano, tutti quelli che piacevano a lei. Le note dell’ Ave
Maria di Fabrizio De Andrè, lacrime, commozione, il sindaco Pisapia che parla
della sua Milano come “città antimafia”, l’avvocato Enza Rando (che per conto
di Libera ha amorevolmente seguito Denise e tutti i processi contro gli
assassini di sua madre) che legge una lettera di Lea “mai spedita” al
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: «Sono una mamma disperata, allo
stremo delle sue forze. Oggi mi trovo con mia figlia lontana da tutto e da
tutti. Sono sola. Ho perso tutto. Sapevo a cosa andavo incontro… vorrei che lei
rispondesse alle decine di persone che si trovano nelle mie stesse condizioni.
La prego ci dia un segnale di speranza. Abbiamo bisogno di aiuto…».
Qualche minuto prima un’altra voce e un
altro foglio, brani del diario della donna uccisa con il fuoco, poche parole
datate 19 agosto del 1992: «Ho scritto tutto quello che ho sentito, che mi
dicono. Non ho scritto quello che penso. Della mia vita non gliene frega niente
a nessuno e sono sola. So solo che la mia vita non è mai stata niente, sono
nata nella sfortuna e morirò nella sfortuna. Ma ora ho una ragione per andare
avanti: si chiama Denise…lei avrà tutto quello che io non ho mai avuto nella
vita».
In mezzo alla piazza e in mezzo alla folla
c’è Luigi Ciotti, commosso, tirato. Dice: «Lea è ancora viva, Lea che è un
martire della verità, un testimone della verità». E dice: «Non basta parlare di
verità, dobbiamo cercarla». Ancora: «Lea, siamo a noi a chiedere la tua
benedizione, benedici Milano, benedici Denise che noi non lasceremo mai sola».
Il popolo di Milano è davanti alla bara di
Lea. Portata in spalla dal sindaco, da Nando dalla Chiesa, da don Ciotti, da
Mario Calabresi, il direttore de La Stampa che in questi anni ha portato calore
a Denise. Si spalancano i cancelli del cimitero Monumentale di Milano. La teca
di zinco scompare, murata. A pochi centimetri, c’è il cippo di marmo con il
capitello corinzio che ha voluto come tomba Enzo Tortora. Insieme ai suoi
occhiali. E a una copia della Storia della Colonna Infame di Alessandro
Manzoni.
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