Un no ai partiti non alla politica
Si può buttarla
sul ridere e dire che Grillo non è una sorpresa: in fondo sono vent’anni che
gli italiani votano un comico. Oppure strillare contro la vittoria
dell’antipolitica, come fanno i notabili del Palazzo e i commentatori che ne
respirano la stessa aria viziata. Ma conosco parecchi nuovi elettori di Grillo
e nessuno di loro disprezza la politica. Disprezzano i partiti. E credono, a
torto o a ragione, in una democrazia che possa farne a meno, saltando la
mediazione fra amministrati e amministratori.
La storia ci dirà se si tratta di un gigantesco abbaglio o se dalla rivolta antipartitica nasceranno nuove forme di delega, nuovi sistemi per aggregare il consenso.
Ma intanto c’è questo urlo di dolore che attraversa l’Italia, alimentato dalle scelte suicide e arroganti compiute da un’intera classe dirigente.
Non si può certo dire che non fosse stata avvertita. I cittadini stremati dalla crisi hanno chiesto per mesi alla partitocrazia di autoriformarsi. Si sarebbero accontentati di qualche gesto emblematico. Un taglio al finanziamento pubblico, la riduzione dei parlamentari, l’abolizione delle Province. Soprattutto la limitazione dei mandati, unico serio antidoto alla nascita di una Casta inamovibile e lontana dalla realtà. Nel dopoguerra il grillismo meridionale dell’Uomo Qualunque venne dissolto dalla Dc di De Gasperi nel più semplice e intelligente dei modi: assorbendone alcune istanze. Purtroppo di De Gasperi in giro se ne vedono pochi. La limitazione dei
mandati parlamentari è da anni il
cavallo di battaglia dei grillini. Se il Pdl di Alfano l’avesse fatta propria,
forse oggi esisterebbe ancora. Ma un partito che ai suoi vertici schiera
reperti del Giurassico come Gasparri e Cicchitto poteva seriamente pensare di
esistere ancora? Il Pd ha retto meglio, perché il suo elettorato ex comunista
ha un senso forte delle istituzioni e dei corpi intermedi - partiti, sindacati
- che le incarnano. Ma se il burocrate Bersani, come ha fatto ancora ieri,
continuerà a considerare il grillismo un’allergia passeggera, lo tsunami
dell’indignazione popolare sommergerà presto anche lui.
La riprova che il voto grillino è meno umorale di quanto si creda? Grillo non
sfonda dove la politica tradizionale riesce a mostrare una faccia efficiente: a
Verona con il giovane Tosi e a Palermo con il vecchio Orlando (percepito come
un buon amministratore, magari non in assoluto, ma rispetto agli ultimi sindaci
disastrosi). La migliore smentita alla tesi qualunquista di chi considera i
grillini dei qualunquisti viene dai loro stessi «quadri». Che assomigliano
assai poco a Grillo. Il primo sindaco del movimento, eletto in un paese del
Vicentino, ha trentadue anni ed è un ingegnere informatico dell’Enel, non un
arruffapopoli. E i candidati sindaci di Parma e Genova non provengono dai
centri sociali, ma dal mondo dell’impresa e del volontariato. Più che
antipolitici, postpolitici: non hanno ideologie, ma idee e in qualche caso
persino ideali. Puntano sulla trasparenza amministrativa, sul web,
sull’ambiente: i temi del futuro. A volte sembrano ingenui, a volte demagogici.
Ma sono vivi.
Naturalmente i partiti possono infischiarsene e bollare la pratica Grillo come rivolta del popolo bue contro l’euro e le tasse. È una interpretazione di comodo che consentirà loro di rimanere immobili fino all’estinzione. Se invece decidessero di sopravvivere, dovrebbero riunirsi da domani in seduta plenaria per approvare entro l’estate una riforma seria della legge elettorale, del finanziamento pubblico e della democrazia interna, così da lasciar passare un po’ d’aria. Ma per dirla con Flaiano: poiché si trattava di una buona idea, nessuno la prese in considerazione.
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