da: la Repubblica
Mediaset, big spender in fuga meno spot, ferma la pay il Biscione e il
nodo-strategie
I grandi investitori che dirigevano sulle reti di Berlusconi il 70%
dei loro budget stanno lasciando l’Italia. E con l’audience in calo, Premium
non decolla, le incertezze su internet, a Cologno è arrivata l’ora di prendere
decisioni importanti.
di Stefano Carli
Non finiscono mai le cattive
notizie per Mediaset in questi giorni. Non è solo il calo del 10% della
raccolta pubblicitaria nel primo trimestre dell’anno in corso. E nemmeno il
fatto che neanche il secondo trimestre andrà meglio (e questa è una notizia
davvero brutta, perché di solito i trimestri pari sono quelli migliori). E’ che
ci sono altre bruttissime notizie in vista. Sono voci, senza alcuna
ufficialità, che circolano tra i manager della pubblicità e dicono che i big
mondiali del largo consumo, quelli che dal punto di vista del settore sono
definiti i «big spender» (la traduzione è inutile) starebbero tagliando del 30%
i loro budget destinati all’Italia. Sono i signori degli spot tv, si chiamano
Procter e Unilever, Johnson Wax e Nestlè. La ritirata dall’Italia dei giganti
degli spot a prima vista potrebbe essere una gran brutta notizia ma se non
altro condivisa con tutto il resto del mercato. Ma non è così. Chi frequenta
gli uomini che fanno e disfano i budget pubblicitari di queste grandi
multinazionali del largo consumo dice che è un movimento continentale: l’Europa
è impoverita dalla crisi, i consumi languono perfino in Germania e i budget
vengono spostati verso mercati dove ha senso spendere soldi in comunicazione
perché poi ritornano in maggiori acquisti. Si parla del Brasile, ovviamente, ma
anche di Indonesia e Vietnam. Ma - aggiungono - se bisogna ridurre in Europa, è
più agevole e diplomaticamente sostenibile, tagliare di più in Italia e meno in
Francia, Germania o Inghilterra. E qui si arriva al nocciolo della questione per
gli uomini di Giuliano Adreani, doppio capo di Mediaset e Publitalia.
L’esodo
dei «big spender » è soprattutto un problema suo. Fatto 100 la torta degli spot
dei big, Publitalia ne controllava una quota del 70%. Con punte ancora
superiori quando si passa alle multinazionali di casa nostra: in prima file le
telecom. Insomma, paradossalmente per il Biscione sarebbe stato meglio che il
calo maggiore del mercato fosse un contraccolpo della perdita del «dividendo
Berlusconi» susseguente all’uscita del capo da Palazzo Chigi. Ma non è così: è
peggio. La paura che serpeggiava già da tempo si sta ora tramutando in quasi
certezza. Questa non è una crisi di ciclo ma un trend di lunghissimo periodo. E
tra gli addetti ai lavori si sente già dire a mezza bocca che l’età d’oro della
pubblicità, almeno in Italia, forse in tutta Europa, è ormai una cosa del
passato. Il mercato si è ristretto ed è tornato ai livelli di fine anni
Novanta. Finito? Non ancora. Perché c’è un ultimo segnale: la pay tv si è
fermata. «I ricavi da abbonamento su tutto il mercato europeo - spiega Augusto
Preta, ceo di It Media Consulting - non crescono: in Europa il 2011 si è chiuso
con appena un +1,9; per il 2012 la stima è di un +1,3. Tolta l’inflazione siamo
alla crescita negativa». Tutto questo si traduce per Mediaset in un trend
atteso che dovrebbe toccare il suo punto più basso dopo l’estate e con un lieve
recupero per fine anno. Trend confermato da una tempestiva analisi di un report
Barclays datato mercoledì scorso che stima per Mediaset una chiusura d’anno con
un meno 8% di ricavi pubblicitari. A Cologno devono dunque correre ai ripari.
Servirebbe un segnale esplicito di cambio di strategia. Quelli impliciti ci
sono già tutti. I problemi di redditività della pay tv Premium non sono più
nascosti, ma ancora non se ne dà la misura e soprattutto non si dice che cosa
si pensa di fare. Ma è difficile annunciare ufficialmente lo stop di una scelta
voluta in prima persona da Pier Silvio. Dal bilancio è difficile capire quanto
perdono effettivamente perché non c’è una redistribuzione pro quota dei costi
generali. Invece si sa che nei prossimi anni aumenteranno i costi di
acquisizione dei diritti tv perché stanno scadendo i contratti in essere che
erano stati firmati “a sconto” quando il digitale terrestre aveva una
diffusione ridotta, mentre ora siamo di fatto al 100%. A questo va aggiunto che
i nuovi canali digitali in chiaro di Mediaset stanno cannibalizzando i «padri»:
e d’altra parte, dice un manager di lungo corso della tv italiana, se si chiama
un canale La5 è ovvio che i primi che andranno a vederlo sono gli spettatori
affezionati di Canale 5. E se i contenuti di questi canali sono un re-mix di
quanto già uscito sulle reti maggiori, la tendenza al travaso è un effetto
matematico. Conclusione: la pay tv non si sostiene da sola e non cresce più
neanche con abbonamenti venduti sotto il break even. Ma se Sky può permettersi
di fermarsi ai suoi 5 milioni che pagano in media 40 euro al mese, Mediaset no.
Sky ha di fatto già sotto contratto la parte alta del mercato e ora investe
solo per mantenerla. Mediaset, invece, che si muove sulla parte più povera del
mercato, è più a rischio. Rischia soprattutto gli effetti di due nuovi fenomeni
che si stanno già facendo largo sul mercato Usa, che ha già coniato due termini
con i quali dovremo familiarizzare anche qui: “cord shaving” e “cord cutting”.
Indicano due diversi gradi di erosione dei tradizionali ricavi della pay tv da
parte dell’offerta web. Entrambi dicono che l’ulteriore crescita di ricavi da
contenuti a pagamento sulla tv passerà da Internet. E questo mette una grossa
ipoteca finale sulle sorti di Premium. Per Mediaset si configura quindi un
ritorno alle origini: una struttura di ricavi tutta centrata sulla pubblicità,
non solo oggi ma anche in futuro. E questo è un altro passaggio cruciale perché
riguarda l’organizzazione di Publitalia. La presa sulla torta pubblicitaria
italiana è a rischio. Perché aumentano i concorrenti, da Sky in primo luogo,
che a questo punto può contare solo sugli spot per incrementare il suo conto
economico, ai nuovi canali digitali (Real Time, K2 di Francesco Nespega che
lancia giusto oggi un nuovo canale che punta espressamente ad un 1% di share).
Ma un’altra grossa quota di rischio viene dal fatto che Publitalia - è opinione
corrente - non è oggi organizzata in modo sufficiente per adeguarsi al nuovo
mercato. Finora la corazzata di Adreani ha fatto il bello e il cattivo tempo
forte di un portafoglio di circa 1200-1300 investitori: 900 più o meno fissi e
il resto a rotazione. Non ha mai dovuto faticare più di tanto negli ultimi
anni. E quando c’era un calo tra i grandi investitori rincalzava i fatturati
con della pubblicità locale. Ma ora anche la locale è in crisi. L’unica a
correre ancora è la pubblicità online. Cresce ancora a doppia cifra. A fine
anno avrà messo a segno un altro scatto in avanti tra il 12 e il 15%. Cresce,
corre, ma anche considerando il calo della pubblicità tradizionale, a fine anno
varrà attorno al 15% del totale di mercato. Non è cioè ancora in grado di sostituire
ciò che viene meno sui media tradizionali. Ma cresce. E comunque la battaglia
ora si gioca proprio lì, sull’online. E Publitalia non sembra attrezzatissima.
Adreani poche settimane fa ha annunciato un importante accordo a breve con una
internet company. Il mercato lo sta ancora aspettando. Anche se tutti sono
certi che si tratta dell’accordo con YouTube, il social network video di
Google, che metterà fine ai diversi contenziosi giuridici in corso e che si
chiudono con alterni risultati, a volte in favore di Mediaset, altre in favore
di YouTube. Ma l’accordo è fermo. I contorni non si conoscono ma c’è chi
scommette che non si discosteranno poi molto da quello analogo che è da mesi
bloccato tra YouTube e la Rai. In questo caso si mormora di un’offerta a viale
Mazzini di 16 milioni di minimo garantito per tre anni ma stavolta per format
lunghi, in pratica intere puntate di fiction e non come ora, pillole tratte
soprattutto dai talk show politici (e qui l’assenza di Anno Zero si sente) e
che infatti vale a Rai un fatturato YouTube di appena un milione l’anno. A
viale Mazzini l’accordo con YouTube è fermo. Ufficialmente perché Sipra si
oppone a cedere a Google la raccolta pubblicitaria. Le interpretazioni più
cattive dicono invece che tutto è fermo in attesa di cosa farà Mediaset. Anche
con il Biscione le cose si sarebbero arenate davanti allo scoglio Publitalia,
che non vorrebbe lasciare a Google la raccolta pubblicitaria. Ma stavolta le
difficoltà non sono solo nel convincere gli emissari del motore di ricerca
numero uno al mondo a fare una deroga su questo punto (e vale la pena di
ricordare che pochi mesi fa lo stesso Larry Page ad di Google ha disegnato un
futuro per la sua società con un core business tutto incentrato proprio sulla
raccolta pubblicitaria) ma anche dentro la stessa Mediaset. Se pubblicità
online deve essere sarà più efficace Google o Publitalia nel raccoglierla?
Visto il doppio ruolo di Adreani, si può dire che stavolta il conflitto di
interessi è proprio tutto interno a Cologno Monzese. A lato, la sede di
Mediaset a Cologno Monzese Secondo Barclays anche il 2012 si chiuderà per il
Biscione con ricavi pubblicitari in calo di circa l’8%. E dalla prossima
stagione dovrà anche fare i conti con l’aumento dei costi dei diritti tv,
mentre i anche i ricavi da pay tv dovrebbero rallentare.
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