giovedì 17 maggio 2012

Mediaset, previsioni negative confermate e prolungate nel tempo


da: la Repubblica 

Mediaset, big spender in fuga meno spot, ferma la pay il Biscione e il nodo-strategie
I grandi investitori che dirigevano sulle reti di Berlusconi il 70% dei loro budget stanno lasciando l’Italia. E con l’audience in calo, Premium non decolla, le incertezze su internet, a Cologno è arrivata l’ora di prendere decisioni importanti.
di Stefano Carli

Non finiscono mai le cattive notizie per Mediaset in questi giorni. Non è solo il calo del 10% della raccolta pubblicitaria nel primo trimestre dell’anno in corso. E nemmeno il fatto che neanche il secondo trimestre andrà meglio (e questa è una notizia davvero brutta, perché di solito i trimestri pari sono quelli migliori). E’ che ci sono altre bruttissime notizie in vista. Sono voci, senza alcuna ufficialità, che circolano tra i manager della pubblicità e dicono che i big mondiali del largo consumo, quelli che dal punto di vista del settore sono definiti i «big spender» (la traduzione è inutile) starebbero tagliando del 30% i loro budget destinati all’Italia. Sono i signori degli spot tv, si chiamano Procter e Unilever, Johnson Wax e Nestlè. La ritirata dall’Italia dei giganti degli spot a prima vista potrebbe essere una gran brutta notizia ma se non altro condivisa con tutto il resto del mercato. Ma non è così. Chi frequenta gli uomini che fanno e disfano i budget pubblicitari di queste grandi multinazionali del largo consumo dice che è un movimento continentale: l’Europa è impoverita dalla crisi, i consumi languono perfino in Germania e i budget vengono spostati verso mercati dove ha senso spendere soldi in comunicazione perché poi ritornano in maggiori acquisti. Si parla del Brasile, ovviamente, ma anche di Indonesia e Vietnam. Ma - aggiungono - se bisogna ridurre in Europa, è più agevole e diplomaticamente sostenibile, tagliare di più in Italia e meno in Francia, Germania o Inghilterra. E qui si arriva al nocciolo della questione per gli uomini di Giuliano Adreani, doppio capo di Mediaset e Publitalia.
L’esodo dei «big spender » è soprattutto un problema suo. Fatto 100 la torta degli spot dei big, Publitalia ne controllava una quota del 70%. Con punte ancora superiori quando si passa alle multinazionali di casa nostra: in prima file le telecom. Insomma, paradossalmente per il Biscione sarebbe stato meglio che il calo maggiore del mercato fosse un contraccolpo della perdita del «dividendo Berlusconi» susseguente all’uscita del capo da Palazzo Chigi. Ma non è così: è peggio. La paura che serpeggiava già da tempo si sta ora tramutando in quasi certezza. Questa non è una crisi di ciclo ma un trend di lunghissimo periodo. E tra gli addetti ai lavori si sente già dire a mezza bocca che l’età d’oro della pubblicità, almeno in Italia, forse in tutta Europa, è ormai una cosa del passato. Il mercato si è ristretto ed è tornato ai livelli di fine anni Novanta. Finito? Non ancora. Perché c’è un ultimo segnale: la pay tv si è fermata. «I ricavi da abbonamento su tutto il mercato europeo - spiega Augusto Preta, ceo di It Media Consulting - non crescono: in Europa il 2011 si è chiuso con appena un +1,9; per il 2012 la stima è di un +1,3. Tolta l’inflazione siamo alla crescita negativa». Tutto questo si traduce per Mediaset in un trend atteso che dovrebbe toccare il suo punto più basso dopo l’estate e con un lieve recupero per fine anno. Trend confermato da una tempestiva analisi di un report Barclays datato mercoledì scorso che stima per Mediaset una chiusura d’anno con un meno 8% di ricavi pubblicitari. A Cologno devono dunque correre ai ripari. Servirebbe un segnale esplicito di cambio di strategia. Quelli impliciti ci sono già tutti. I problemi di redditività della pay tv Premium non sono più nascosti, ma ancora non se ne dà la misura e soprattutto non si dice che cosa si pensa di fare. Ma è difficile annunciare ufficialmente lo stop di una scelta voluta in prima persona da Pier Silvio. Dal bilancio è difficile capire quanto perdono effettivamente perché non c’è una redistribuzione pro quota dei costi generali. Invece si sa che nei prossimi anni aumenteranno i costi di acquisizione dei diritti tv perché stanno scadendo i contratti in essere che erano stati firmati “a sconto” quando il digitale terrestre aveva una diffusione ridotta, mentre ora siamo di fatto al 100%. A questo va aggiunto che i nuovi canali digitali in chiaro di Mediaset stanno cannibalizzando i «padri»: e d’altra parte, dice un manager di lungo corso della tv italiana, se si chiama un canale La5 è ovvio che i primi che andranno a vederlo sono gli spettatori affezionati di Canale 5. E se i contenuti di questi canali sono un re-mix di quanto già uscito sulle reti maggiori, la tendenza al travaso è un effetto matematico. Conclusione: la pay tv non si sostiene da sola e non cresce più neanche con abbonamenti venduti sotto il break even. Ma se Sky può permettersi di fermarsi ai suoi 5 milioni che pagano in media 40 euro al mese, Mediaset no. Sky ha di fatto già sotto contratto la parte alta del mercato e ora investe solo per mantenerla. Mediaset, invece, che si muove sulla parte più povera del mercato, è più a rischio. Rischia soprattutto gli effetti di due nuovi fenomeni che si stanno già facendo largo sul mercato Usa, che ha già coniato due termini con i quali dovremo familiarizzare anche qui: “cord shaving” e “cord cutting”. Indicano due diversi gradi di erosione dei tradizionali ricavi della pay tv da parte dell’offerta web. Entrambi dicono che l’ulteriore crescita di ricavi da contenuti a pagamento sulla tv passerà da Internet. E questo mette una grossa ipoteca finale sulle sorti di Premium. Per Mediaset si configura quindi un ritorno alle origini: una struttura di ricavi tutta centrata sulla pubblicità, non solo oggi ma anche in futuro. E questo è un altro passaggio cruciale perché riguarda l’organizzazione di Publitalia. La presa sulla torta pubblicitaria italiana è a rischio. Perché aumentano i concorrenti, da Sky in primo luogo, che a questo punto può contare solo sugli spot per incrementare il suo conto economico, ai nuovi canali digitali (Real Time, K2 di Francesco Nespega che lancia giusto oggi un nuovo canale che punta espressamente ad un 1% di share). Ma un’altra grossa quota di rischio viene dal fatto che Publitalia - è opinione corrente - non è oggi organizzata in modo sufficiente per adeguarsi al nuovo mercato. Finora la corazzata di Adreani ha fatto il bello e il cattivo tempo forte di un portafoglio di circa 1200-1300 investitori: 900 più o meno fissi e il resto a rotazione. Non ha mai dovuto faticare più di tanto negli ultimi anni. E quando c’era un calo tra i grandi investitori rincalzava i fatturati con della pubblicità locale. Ma ora anche la locale è in crisi. L’unica a correre ancora è la pubblicità online. Cresce ancora a doppia cifra. A fine anno avrà messo a segno un altro scatto in avanti tra il 12 e il 15%. Cresce, corre, ma anche considerando il calo della pubblicità tradizionale, a fine anno varrà attorno al 15% del totale di mercato. Non è cioè ancora in grado di sostituire ciò che viene meno sui media tradizionali. Ma cresce. E comunque la battaglia ora si gioca proprio lì, sull’online. E Publitalia non sembra attrezzatissima. Adreani poche settimane fa ha annunciato un importante accordo a breve con una internet company. Il mercato lo sta ancora aspettando. Anche se tutti sono certi che si tratta dell’accordo con YouTube, il social network video di Google, che metterà fine ai diversi contenziosi giuridici in corso e che si chiudono con alterni risultati, a volte in favore di Mediaset, altre in favore di YouTube. Ma l’accordo è fermo. I contorni non si conoscono ma c’è chi scommette che non si discosteranno poi molto da quello analogo che è da mesi bloccato tra YouTube e la Rai. In questo caso si mormora di un’offerta a viale Mazzini di 16 milioni di minimo garantito per tre anni ma stavolta per format lunghi, in pratica intere puntate di fiction e non come ora, pillole tratte soprattutto dai talk show politici (e qui l’assenza di Anno Zero si sente) e che infatti vale a Rai un fatturato YouTube di appena un milione l’anno. A viale Mazzini l’accordo con YouTube è fermo. Ufficialmente perché Sipra si oppone a cedere a Google la raccolta pubblicitaria. Le interpretazioni più cattive dicono invece che tutto è fermo in attesa di cosa farà Mediaset. Anche con il Biscione le cose si sarebbero arenate davanti allo scoglio Publitalia, che non vorrebbe lasciare a Google la raccolta pubblicitaria. Ma stavolta le difficoltà non sono solo nel convincere gli emissari del motore di ricerca numero uno al mondo a fare una deroga su questo punto (e vale la pena di ricordare che pochi mesi fa lo stesso Larry Page ad di Google ha disegnato un futuro per la sua società con un core business tutto incentrato proprio sulla raccolta pubblicitaria) ma anche dentro la stessa Mediaset. Se pubblicità online deve essere sarà più efficace Google o Publitalia nel raccoglierla? Visto il doppio ruolo di Adreani, si può dire che stavolta il conflitto di interessi è proprio tutto interno a Cologno Monzese. A lato, la sede di Mediaset a Cologno Monzese Secondo Barclays anche il 2012 si chiuderà per il Biscione con ricavi pubblicitari in calo di circa l’8%. E dalla prossima stagione dovrà anche fare i conti con l’aumento dei costi dei diritti tv, mentre i anche i ricavi da pay tv dovrebbero rallentare.

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