da: La Stampa
Carlo Lizzani s’è buttato dal terzo piano
ed è morto. Non sopportava più la vita? Ma aveva 91 anni.
Quanta vita aveva ancora da vivere?
Pochissima. Ma anche quella pochissima ha voluto rifiutarla, non ce la faceva
più. La stessa cosa è capitata a Mario Monicelli, per restare nel cinema.
Monicelli aveva 95 anni quando si buttò
dalle finestre della clinica dov’era ricoverato, aveva un cancro ed era appena
stato operato. Malato, ultravecchio, non autosufficiente, comunista e ateo
dichiarato, cosa gl’impediva di uccidersi? Niente. Ma Lizzani era con me tra
gli ospiti di Ratzinger, i 250 artisti che il Papa aveva chiamato da tutto il
mondo per incontrarli. Non è detto che fossero (che fossimo) tutti cristiani
credenti, ma eravamo intellettuali (registi, attori, cantanti, scrittori…) che,
se sentiamo parlare la Chiesa, non ci turiamo le orecchie. E tra le cose che
abbiamo sentito, e che han segnato la nostra cultura, c’è la gravità del
suicidio: gesto estremo, col quale «rifiuti di esistere», ti sottrai alla
famiglia, agli amici, all’umanità. Prima di farlo, t’interroghi migliaia di
volte: cosa perdi? cosa guadagni?
A novant’anni non è che quel che può ancora
darti la vita sia poco o niente, cioè un valore positivo prossimo allo zero, o
lo zero addirittura. No, per gli uomini della quinta età (oltre i novanta),
quel che la vita riserva è un valore negativo. Sotto lo zero. Soltanto
sofferenze e umiliazioni. Hai bisogno di tutto e di tutti e non puoi più dare
niente a nessuno. Se sei stato un grande (Lizzani è stato un grande, Monicelli
è stato un grande), il ricordo della passata grandezza diventa un dolore
lancinante quando ti accorgi che gli altri cominciano a dimenticarti. Si dice:
la storia cambia e la vita si rinnova. Sì, ma mai come adesso. Adesso
s’affaccia una nuova generazione di scrittori registi pittori, insomma artisti,
ogni dieci anni. Sono feroci: vogliono prendere il tuo posto e seppellirti.
Fanno cose diverse dalle tue, non capiscono le tue e tu non capisci le loro.
Chi decide tra i due? Il pubblico e i media. Pubblico e media stanno sempre col
nuovo, perché il nuovo è il loro cibo. Se ne nutrono e poi lo scartano, perché
vanno alla ricerca di nuove novità. Cosa può confortare un artista che
invecchia e aiutarlo a tirare avanti? Che le sue opere lo seguano. Se
trent’anni prima ha scritto un grande libro, che il libro si ristampi ancora.
Se ha diretto un grande film, che il film si proietti ancora, magari per gli
studenti. Per l’artista che invecchia, non conta il successo di una volta, ma
la durata attuale delle sue opere. Questa è il massimo che può avere. Dovrebbe
bastare. Se a Monicelli e a Lizzani non è bastata, vuol dire che le amarezze
della quinta età sono così mostruose, che prima di entrarci non possiamo
neanche immaginarle. Ormai prolunghiamo troppo la vita. Rischiamo che l’ultimo
tratto non sia più vivibile.
(fercamon@alice.it)
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