da: la Repubblica
Inutile
parlare di Europa madrepatria della democrazia, e
proclamare nella sua Carta dei diritti che siamo "consapevoli del suo
patrimonio spirituale e morale", dei suoi "valori indivisibili e
universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà",
quando tutto in noi pare spento: tutti i miti che fanno la nostra
civiltà, assieme ai tabù che la sorreggono. E tra i primi forse il mito di Antigone, senza il quale non
saremmo chi siamo. Oppure la solenne legge del mare, che obbliga a salvare il
naufrago, quasi non esistesse peggiore sciagura delle acque che si chiudono
mute sull'uomo. Il mare è senza generosità, scrive Conrad: inalterabile,
impersona l'"irresponsabile coscienza del potere".
Sono uniti, i due miti, dalla convinzione
che fu già di Sofocle: la norma superiore cui Antigone ubbidisce – fissata da
dèi arcaici, precedenti gli abitanti dell’Olimpo – il re di Tebe non può
violarla, accampando la convenienza politica e le proprie transeunti idee di
stabilità. È norma insopprimibile, e Creonte che antepone il diritto del
sovrano, il nomos despòtes, paga un alto prezzo. Così la legge del mare.
Quando sfoggia vergogna, l’Europa suol
cantilenare, come dopo Auschwitz, una sua frase inane ma contrita: «Mai più!»
Inane perché contempla il passato, non il presente. Ma almeno è contrita. Oggi
nemmeno questo: il «mai più» neanche è pronunciato, la violazione è attribuita
a cieca fatalità e si esibisce impudica. Un
ministro – si chiama Angelino
Alfano, già ignorò il diritto d’asilo nell’affare kazako – sta sul bordo
del mare e dice che i 232 morti sottratti alle acque di Lampedusa non saranno
gli ultimi: «Non c’è ragione per pensare e per sperare che sarà l’ultima
volta».
Colpisce il divieto di pensare, più ancora
di quello di sperare. Neanche pensare possiamo, che l’Europa sia qualcosa di
diverso da un fortilizio militarizzato. Che stiamo lì per difendere non solo un
muro di cinta, ma gli esseri umani che disarmati provano a valicarlo. Per il
ministro, ben altra è la questione amletica: dobbiamo sapere «se l’Europa
intenda difendere la frontiera tracciata dal trattato di Schengen. Uno Stato
che non protegge la sua frontiera semplicemente non è. L’Europa deve scegliere
se essere o non essere».
Quattro considerazioni, a questo punto.
Primo:
l’Europa è sì davanti a un bivio esistenziale, ma non quello che con porte
bronzee nega l’idea stessa del bivio. Deve decidere se vuol essere all’altezza
delle norme che professa, e che da tempi immemorabili le prescrivono di
accogliere i fuggitivi, i supplicanti, oltre che di tutelare i confini da
assalti stranieri. Né l’emigrazione economica clandestina né la fuga da guerre
o dittature (spesso sono la stessa cosa) sono equiparabili a attacchi esterni.
Vengono equiparati invece, e per questo è lecito parlare di guerra nel
Mediterraneo.
Il fuoriuscito stipato con i suoi nei
barconi è trasformato in nemico. In homo sacer, come scrive Giorgio Agamben:
vita nuda, soggetto non legale, bandito pur appartenendo agli Dèi: uccidibile.
Entra in Europa e «vive in orbita», dice la lingua burocratica. La legge
antichissima si spense, quando nel 2004 l’Unione creò Frontex (Agenzia che
gestisce le frontiere esterne). Frontex coordina le misure di polizia,
pattuglia coste, garantisce il rimpatrio dei clandestini. La protezione dei
diritti umani è un obiettivo residuale, un ornamento.
Seconda
considerazione: l’Europa ha sue responsabilità, ma
l’Italia non ne ha di minori. Il reato di clandestinità, introdotto nel 2009
dal governo Berlusconi, definisce un crimine in sé l’esodo senza permessi
anticipati. Di qui la parentela con la guerra: come se il clandestino fosse un
combattente irregolare e specialmente insidioso, perché non combatte a viso
scoperto, indossando l’uniforme, ma conduce una sorta di guerriglia che si
confonde e confonde. Ecco la legge di Tebe che si sovrappone alla norma di
Antigone. La sicurezza e la stabilità– quest’ultima è addirittura eretta da
Enrico Letta a «valore assoluto » , nuovo non negoziabile articolo di fede –
esigono sacrifici e morte. Il migrante, bollato, è un pericolo sociale. La
Corte Costituzionale s’oppose (sentenza n. 78/2007), escludendo che lo stato
d’irregolarità sia
sintomo presuntivo di pericolosità sociale;
ma il reato appena ritoccato (scompare la pena detentiva) resta. Fin dal 2002
la legge Bossi-Fini preparò il terreno: ingiungendo il respingimento immediato
del migrante (poco importa se restituito o no alle dittature cui scampava) e
rendendo impraticabili le procedure di concessione di asilo.
Di qui il pervertirsi della norma
instaurata prima ancora che Cristo nascesse – Soccorrere è un dovere, non
soccorrere è un reato — iscritta nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati
come nella Carta europea dei diritti fondamentali dell’Unione (art. 18). Non
soccorrere è peccato di omissione, e più precisamente crimine di indifferenza.
Che senso ha dire «mai più», se non vediamo che il delitto di clandestinità per
forza incentiva l’omissione di soccorso. Chi aiuta il naufrago incorrerà in
processi e pene per favoreggiamento del reato, e preferirà voltare lo sguardo
altrove. È già successo. Nei paesi occupati dai nazisti, in Polonia ad esempio,
chi tendeva la mano all’ebreo rischiava la morte.
Terza
considerazione: parole come vergogna andrebbero abolite,
nel lessico della politica. Nascono dall’emozione, dalla scossa introspettiva,
non necessariamente osano l’aperto, l’agorà dove si disfano e si correggono le
leggi positive. Dette dal Santo Padre hanno un senso, ma in politica conta
l’azione, non l’emozionarsi e il compatire. Lo Stato sociale e la politica di
asilo sono nati per sostituirsi alla carità, che è grandiosa e non si vanta e
non si gonfia, ma è affidata al singolo o alla Chiesa.
Infine la quarta considerazione: le guerre da cui evadono i “migranti” il più
delle volte ci vedono protagonisti. Le abbiamo attizzate noi, pretendendo di
portare ordine e creando invece caos e Stati disfatti: in Africa orientale,
Afghanistan, Iraq, Somalia e Eritrea, Siria. I confini siriani che scatenano
conflitti, fu l’Europa coloniale a disegnarli. Gli esodi hanno a che vedere con
noi.
Qualche tempo fa, in una trasmissione della
radio tedesca (Südwestrundfunk, 26 giugno 2008, il titolo era: Guerra nel Mediterraneo),
venne intervistato un alto dirigente della
Guardia di Finanza italiana, Saverio Manozzi, arruolato nell’agenzia Frontex.
Difficile dimenticare quello che ammise. Più che salvare, i guardiani delle
mura erano chiamati alla caccia, alle retate: «Ho avuto a che fare con ordini
secondo cui il respingimento consisteva nel salire a bordo dei barconi o delle
navi, e nel portar via i viveri e il carburante affinché i transfughi non
potessero continuare il viaggio, e facessero marcia indietro».
Salvataggi e aiuti sono considerati un
azzardo morale, perché fomentano sempre nuovi immigrati. Meglio dissuaderli con
l’arma ultima: quasi 20.0000 affogati nel Mediterraneo, dal 1988. Si muore
anche appesi ai fili spinati di Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole sulle
coste del Marocco. O nelle acque del fiume Evros, ai confini fra Turchia e
Grecia. In Francia, respinti sono i Rom.
Di azzardo morale si parla molto in questi
anni di crisi. È l’assillo dei moderni Creonte. Gli Stati indebitati
dell’Unione non vanno troppo aiutati: la solidarietà (welfare compreso) incita
i viziosi a rammollirsi, a peccare ancora e ancora. Se assicuri la casa dal
fuoco, non baderai più ai fiammiferi che accendi: ti rilasserai. La logica
della polizza assicurativa si fonda sul sospetto, non sulla promessa e il
dover- essere di Antigone. Se cadi disteso per terra o nel fondo marino qualche
colpa ce l’avrai. Come dice Kafka: stramazzando susciterai ribrezzo, paura,
perché dal tuo corpo emanerà il «puzzo della verità ».
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