da: Il Fatto
Quotidiano
Dieci cose su ‘Quello che non ho’
Quello che non ho è un bel programma. Certo migliore
della bassa media nazionale. Voto? 7+.
Questo, però, non lo rende necessariamente perfetto. Social
network come Twitter – lo ha
ribadito Federico Mello sul Fatto Quotidiano – hanno dimostrato come nessun
programma sia ormai intoccabile (sarà per questo che Twitter non piace ad
alcuni autori del programma?). Il ruolo
della Rete è nuovamente salvifico. Quando qualcuno si provò a dire che
Vieni via con me era bello ma non il sol dell’Avvenire, fu crivellato (lo so,
il web esisteva anche a novembre 2010, ma Twitter non aveva questa rilevanza. E
Twitter permette la recensione fulminante in diretta più di qualsiasi altro
consesso). Ora criticare Quello che non
ho è normale: buon segno.
1 – “Guida
galattica per benpensanti radical-chic”, “Bibbia per sinistroidi snob”,
“Salottino sinistrorso”. Sono solo alcuni dei commenti letti in Rete. Sbagliano
tutti?
2 – Come hanno
spiegato anche Aldo Grasso e Nanni
Delbecchi, Quello che non ho è un
programma un po’ ricattatorio. Autoassolutorio. E vagamente cassandrico (il
sottotesto è sempre: “Ricordati che devi morire”). Scriverlo non è peccare di
lesa maestà, ma avere occhi per guardare. O anche solo pareri legittimamente
non allineati.
3 – Roberto Saviano (1). Rispondere “non ne ho stima, è solo fango”
a uno che ha espresso dubbi ben
scritti, è la stessa reazione di
Berlusconi di fronte al dissenso. Se qualcuno sostiene che Saviano è
banale, dotato di scrittura debole e noioso, non è che vada fucilato in piazza.
Nemmeno se si chiama Giuliano Ferrara e ha il passato (ma pure il presente) di
Giuliano Ferrara.
4 – Roberto
Saviano (2). Grande stima, massima solidarietà. Sia chiaro. Dovrebbe però
essere il primo a preoccuparsi per questa deriva
celebrativa di cui è vittima (sì, vittima). Quando un giornalista diventa
santone, e non ha più lettori ma fedeli, è un guaio.
5 – Roberto
Saviano (3). Lo ha scritto anche Gianni
Mura (non esattamente un pasdar). La rubrica
di Giorgio Bocca su L’Espresso
doveva chiudersi con lui. Darla a
Saviano è un errore. Benissimo leggere Saviano, ma cambiamo intestazione. Bocca
era Bocca.
5 – Ritmo. Tutto deve avere la giusta
tensione. Non basta dire cose giuste: occorre saperle dire. L’arte può essere
bella e perfino brutta, ma non può permettersi la noia. Televisione compresa.
Molti passaggi di Quello che non ho sono noiosi. E la difesa “sì ma quando si
fa cultura si può essere noiosi” è puerile. Ricorda l’idea barbosa, superata e
muffita secondo cui una canzone è di sinistra soltanto se annoia (come cantava
qualcuno).
6 – I fanboys di Quello che non ho sono comicamente permalosi. Quasi come un
fan di Ligabue o una bimbaminkia di Lady Gaga (ho detto “quasi”). Ricordano le
“professoresse democratiche” di cui scriveva quel gran genio di Edmodo
Berselli. Di fronte alle critiche si trincerano dietro la Linea Maginot del
perbenismo pensoso: “Sì, forse ha
qualche difetto, però se non vi piace guardatevi il GF. Di meglio non c’è”.
Attenzione: messa così, Quello che non ho
sembra la dependance del Partito Democratico. E con questa storia del “meno
peggio” non se ne può più.
7 – Fabio Fazio. Se ne è già scritto tanto.
E certe fenomenologie sono tornate di moda. Ormai il suo modo di
fare tivù si conosce: pavidità venduta
per educazione, paura spacciata per cifra stilistica. Nulla di nuovo. La
sua faccia sgomenta, quando Piero Pelù ha attaccato la Fiat, è stata
meravigliosa (la pubblicità è partita subito dopo: toh, che coincidenza).
Mentre il suo osanna a Giorgio Napolitano non ha stupito nessuno.
8 – Se il femminismo deve aggrapparsi ai
coiti mancati di Luciana Littizzetto,
è messo male. Il suo monologo di lunedì è stato uno dei
punti più bassi nella storia della comicità italiana. Un po’
Benigni-Patonza vent’anni dopo, un po’ Lella Costa senza essere Lella Costa, un
po’ (tanto) Martufella. E non basta la (lodevole) chiusura sulla violenza sulle
donne per salvarla.
9 – Quello che non ho usa grandi nomi per fargli recitare omelie
(tra l’apocalittico e il retorico). Una messa laica che lava appena le
coscienze e finisce lì. Senza mai mordere. Quando è intervenuto Marco Travaglio, è stato come togliere
il tappo. Finalmente un po’ di sana
cattiveria. Finalmente un po’ di realtà. Emblematico l’intervento di Gad
Lerner. Che, messo a ruota di Travaglio, sembrava un monologo Breznev dopo
un’arringa del Che.
10 – Quello che non ho è forse una sorta di
ultimo fuoco della vecchia tivù. Una ricetta
griffata che soddisfa ancora molti – gli ottimi ascolti – ma non tutti. Lo
scenario è in qualche modo analogo alle ultime amministrative: un vecchio
sistema che non ha più gli strumenti per interpretare la realtà, un nuovo
“sconosciuto” che avanza. Esistono sempre più persone che non si fanno bastare
più le cerimonie di un tempo. Sono accusati di “non accontentarsi”, “sapete
solo criticare”, “non vi va mai bene niente”. Forse però desiderano unicamente
una narrazione diversa. Appena meno patinata.
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