da: Lettera 43
Ramones,
ripubblicati i primi sei album
Padri
del punk senza esserlo. Esagerati. Ma melodici. Perché i maestri dei tre
accordi sono immortali.
di Massimo
Del Papa
Essere crocifissi a un equivoco. A un
genere che chissà se davvero avevano fondato, e che comunque non era il loro.
Questo il destino allegro e atroce dei Ramones, i padri del punk, e meno male
che il «padrino», per dire il progenitore, era stato Iggy Pop con gli Stooges a
fine '60.
Questione di feeling, più che di genere.
Un'attitudine, un modo di stare al mondo che i Ramones s'inventarono, non
sapendo fare altro.
I Ramones non andranno mai via anche se non
ci sono più da tempo, semplicemente perché quell'attitudine scriteriata,
quell'andare a 100 all'ora sul palco e nella vita, non passa e ce n'è sempre
bisogno, almeno fino a che a un ragazzo ribolle il sangue nelle vene.
IL DIRITTO/DOVERE DI ESSERE SCEMI. È il
diritto, e forse il dovere, d'esser scemi fino a che non si deve crescere. E
allora, eccoli qui, imminenti,
il 29 ottobre prossimo, i primi sei album del
confuso e confusionario grumo newyorkese i cui membri decisero di
soprannominarsi tutti allo stesso modo, folgorati da Paul McCartney. Prezzo
quasi popolare, 40 dollari, per Ramones: the Sire years (1976-1981), strenna
coi primi sei album realizzata dalla Rhino Records: tutti in fila, Ramones,
l'omonimo debutto del 1976, e quindi la doppietta del 1977 Leave home e Rocket
to Russia, Road to ruin del '78, End of the century (prodotto da Phil Spector)
del 1980 e Pleasant dreams del 1981.
IL SACCHEGGIO DELLA NOSTALGIA. Siccome il
saccheggio della nostalgia, volendo, non ha limiti, ci sarà pure una versione
più corposa con tanto di versioni digitali degli altri cinque dischi di studio
lungo gli Anni 80: Subterranean jungle, Too tough to die, Animal boy, Halfway
to sanity e l'ultima prova col bassista Dee Dee Ramone, Brain drain.
Si parla perfino di vecchi-nuovi inediti
nel 2014, che Marky Ramone, a singhiozzo dentro e fuori dal gruppo tra il 1978
e il 1983 e dal 1987 fino al passo finale nel 1996, starebbe rielaborando in
studio.
Figli
della Gioventù bruciata Anni 50
Eppure i Ramones, «babbi» di tanti gruppi
punk, specie della scena surf californiana, non furono punk: come potevano
appartenere allo spirito del 1977 se erano usciti almeno tre anni prima?
Quell'assurdo, fantastico concerto di presentazione al Cbgb di un quarto d'ora,
litigi compresi, chiarì una volta per tutte il senso del gioco: il rock s'era montato
la testa, era diventato serioso, tronfio, «progressivo».
Questi quattro salivano e facevano un gran
casino, un muro di cacofonia più che di suono. Il loro punk finiva lì. Perché i
Ramones di pelle vestiti, sono figli degli Anni 50, delle gioventù bruciate e
di James Dean, di Happy Days e di Fonzie.
UNA VITA IN TRE ACCORDI. I loro tre accordi
sono quelli che i Rolling Stones spremevano appena 10 anni prima. I loro
disastrosi concerti degli inizi, sono gli stessi. E il loro primissimo conato
di successo, Judy is a Punk, è l'anello mancante fra Buddy Holly e (per
esempio) i Cheater Slicks, alfieri del punk puro e duro.
Portavoce
dell'incoscienza del rock
Dopo di loro, il diluvio di gruppi e
gruppuscoli tenuti insieme con le spille dell'approssimazione, alcuni davvero
pessimi, altri destinati a diventare grandiosi.
Una volta un Ramone disse: «Abbiamo
democratizzato il rock and roll». Aveva ragione e aveva torto: casomai lo
avevano ri-democratizzato, avevano di nuovo insegnato a tutti che il rock and
roll era «1-2-3-4, Hey-Ho: let's go!», l'immediatezza, l'incoscienza, la
sfrontatezza dell'umiltà: andar su e buttarsi senza tante menate.
Ma attenzione: i Ramones non è che non
sapessero suonare bene. Sapevano suonare male, che è una faccenda tutta
diversa. Altrimenti non sarebbero durati 20 anni. Altrimenti non avrebbero
ricevuto tanti tributi, mai degni degli originali, e non avrebbero a volte
superato gli originali sul loro stesso terreno.
Un esempio per tutti la I Don't Wanna Grow
Up di Tom Waits, musicista troppo raffinato, con troppo background per
quell'inno eternamente adolescenziale che nelle mani grezze dei Ramones divenne
altro, divenne un manifesto di vita che cascava loro addosso come le giacche di
pelle.
UN PENDOLO TRA ALLEGRIA E DOLORE.
Altrimenti Phil Spector, che di muri sonori se ne intendeva, non li avrebbe
prodotti, facendoli vendere, una volta tanto, a scatafascio ma senza riuscire
ad afferrarne il misterioso senso. E il senso era che i Ramones furono un
pendolo tra l'allegria e il dolore: che non sia vero, che finisca troppo
presto, che sia tutta una commedia. Che dopo, tocca crescere, ed è terribile.
E finì. Una quindicina d'album dopo, finì.
Con una carriera assurda e piena di guai.
Quasi tutti morirono prematuramente,
davvero troppo presto. Ma i Ramones non se ne vanno, i loro slogan assurdi,
superficiali, infantili vengono rielaborati dalla vita. Per dire,
«Gabba-Gabba-Hey», oggi in Italia viene usato per citare una maestra del giornalismo
investigativo come Milena Gabanelli: e c'è da giurare che non le dispiaccia.
Maghi dei tre accordi i Ramones, che
sapevano suonare male, ma così bene da riuscire inimitabili. Che fondarono il
punk cui non appartennero mai sul serio. Che non erano i Beatles, ma furono
favolosi in modo diverso. Che si chiamavano tutti uguali, ma continuavano a
cambiare componenti. Che facevano un gran casino, ma la loro canzone più bella
arrivò in fine di carriera ed era una dolce ballata e si chiamava Poison Heart.
Parla di un bambino. Un bambino troppo
indifeso per un modo di grandi dal cuore avvelenato, che si aggira in un
cimitero senza via d'uscita e lui vorrebbe solo andarsene via, restare bambino
per sempre, non crescere mai più.
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