da: la Repubblica
Per una volta, mi metterò nei panni di
Giorgio Napolitano. Il quale sapeva, come me e come voi, che il suo messaggio
sulle carceri gli sarebbe stato ritorto contro come un vile espediente per
trarre dalle peste Silvio Berlusconi. Che ci sono esponenti politici e uomini
di spettacolo che sulla rendita di insinuazioni come queste ingrassano. Che la
corruzione di comportamenti e lo scandalo di sentimenti di un ventennio sfinito
hanno esacerbato l’opinione.
Insomma: che si stava cacciando in un guaio
grosso. E allora, perché l’ha fatto? Azzardo una risposta. Se fossi Napolitano,
sarei sconvolto, come me, dallo stato delle galere. Mi ricorderei di essere
andato – lui, non io – il giorno di Natale del 2005, a una “marcia per
l’amnistia” indetta dai radicali. Otto anni fa: Napolitano aveva appena
ottant’anni, Berlusconi stava benone, era capo del governo. A quella Marcia di
Natale, Napolitano disse al cronista di Radio radicale che per lui, col suo
passato, non era così insolito partecipare a un corteo, sebbene fosse diventato
più raro. Ma a questa, spiegò, bisognava esserci. E mi auguro che la politica
affronti il problema, aggiunse, «senza lasciar prevalere pregiudiziali, o
timori non ben chiari…».
Continuo a immaginare che cosa dev’essersi
detto licenziando il suo messaggio. Non se la prenderà, io sono interdetto in
perpetuo. Si sarà ricordato che nel giugno 2011 partecipò a un convegno
promosso da Pannella e ospitato dal Senato sulle carceri. Berlusconi stava
benino, era capo del governo. Lui, il presidente, disse che era una «questione
di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile». Disse che la
questione della giustizia e specialmente delle carceri era giunta «a un punto
critico insostenibile, sotto il profilo della giustizia ritardata e negata, o deviata
da conflitti fatali tra politica e magistratura, e sotto il profilo dei
principi costituzionali e dei diritti umani negati per le persone ristrette in
carcere». Citò «i più clamorosi fenomeni degenerativi – in primo luogo delle
condizioni delle carceri e dei detenuti – e anche le cause di un vero e proprio
imbarbarimento ». Parlò di «una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma,
per la sofferenza quotidiana – fino all’impulso a togliersi la vita – di
migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi
un eufemismo, per non parlare dell’estremo orrore dei residui ospedali
psichiatrici giudiziari, inconcepibile in qualsiasi paese appena appena civile
– che solo recenti coraggiose iniziative stanno finalmente mettendo in mora».
(Macché: sono sempre lì, questo lo aggiungo io). Continuò: «Evidente è l’abisso
che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale… È una
realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata
che garantita, e dalla quale non si può distogliere lo sguardo…». E concluse:
«Non dovremmo tutti essere capaci di uno scatto, di una svolta, non foss’altro
per istinto di sopravvivenza nazionale? Ci si rifletta seriamente, e presto, da
ogni parte».
Non ci si rifletteva, da nessuna parte, o
quasi. Intanto lui, Giorgio, continuava a tormentarsene, penso. Visitava
galere, ascoltava invocazioni, veniva alternamente lodato e insultato da Marco
Pannella, che gli ingiungeva di rivolgere un messaggio alle Camere. Napolitano
è forse altrettanto impaziente di lui, ma lo dissimula meglio, e temeva che
un’iniziativa così straordinaria come il messaggio presidenziale sarebbe
restata in quelle circostanze lettera morta, e avrebbe fatto retrocedere
piuttosto che avanzare la giusta causa e urgente. Però non perdeva occasione
per ribadirla. Qualche tempo fa, all’uscita da una visita a San Vittore, a
Marco Cappato che lo interpellava sull’amnistia, rispose: «Se mi fosse toccato
mettere una firma lo avrei fatto non una ma dieci volte». Berlusconi stava
ancora così e così.
Napolitano si sarà ricordato tutto questo.
Intanto l’Europa ci condannava ripetutamente, e l’Italia, che lui supremamente
rappresenta, veniva vieppiù umiliata. Avrà pensato ancora: “Mentre lasciavo il
Quirinale, e avevo pronte le valigie, e mi figuravo un ozio di Capri
appropriato alla mia età e ai desideri di famiglia, questo mi rimordeva sopra
tutto. Quando ho disfatto le valigie, mi sono ripromesso di riprendere comunque
il filo. L’ho fatto ora, prima che sia davvero troppo tardi. Tardi per le
scadenze tassative cui ci obbliga l’Europa, e, più irreparabile ancora, per la
nostra umanità. Il mio messaggio è là, cliccateci sopra, leggetelo, non vi
accontentate di questa usurpazione giornalistica. Troverete tutto, niente di
più e niente di meno di quello che penso e sento. Adesso ne ho 88, di anni. A
differenza di voi giovani, posso permettermi di guardare lontano. Come volete
che mi intimidisca delle speculazioni, delle insinuazioni, degli insulti? Mi
dispiacciono certo le incomprensioni e le diffidenze sincere, mi auguro che
vogliano misurarsi con la verità. E comunque, posso permettermi anche di dire
le cose come stanno: per esempio, che chi mi accusa di voler salvare Berlusconi
(che non potrebbe nemmeno San Gennaro, n.d.r.)e assicurare ‘l’impunità delle
caste’, se ne frega del paese e della gente, e non sa quale tragedia sia quella
delle carceri”.
Cinque anni fa, quando fu varato un indulto
mutilato dell’amnistia, che avrebbe sgombrato tribunali ostruiti da un
arretrato intrattabile, favorendo prescrizioni agli abbienti e sventura ai
poveri cristi, restarono con pochi altri a difendere una decisione del
parlamento, lui Napolitano e Romano Prodi. Allora, lo spauracchio agitato sul
futuro della democrazia era Previti: Previti restò dov’era, in un comodo
domicilio, e nessuno ne ha più sentito parlare. Gridavano che il processo
all’Eternit sarebbe stato insabbiato: si è tenuto ed è finito come doveva.
Ammonirono che i delinquenti usciti avrebbero messo a repentaglio la sicurezza
degli italiani: non successe, e fra gli usciti e i beneficiari di pene
alternative ci furono assai meno recidivi. Queste ultime osservazioni, e molte
altre cui rinuncio, non sono del presidente, ma mie: un po’ per uno.
Considerando tutti questi precedenti,
Napolitano ha confidato che non si potesse lealmente fraintenderlo. Che non si
possa fraintendere il favore per la stessa amnistia, quando viene da giuristi
come Carlo Federico Grosso, da ministri indipendenti come la signora
Cancellieri, da direttori di carceri, da sindacati di agenti penitenziari, da
magistrati e avvocati e operatori penitenziari. Ci sono 64.758 detenuti per una
capienza di 47.615, ha scritto. Ci sono sgabuzzini provvisori di un metro per
un metro adibiti a cella, senza finestre, senza una suppellettile, con un
giornale sul quale fare i propri bisogni. È un po’ lungo il suo messaggio, lo
sa, ma si abbia cura di leggerlo. Poi lui non c’entra più. È sovrano il
Parlamento. Può fare quello che crede, là sono indicate molte misure diverse, e
soprattutto un criterio, e più ancora un sentimento. In Parlamento ci sarà chi
è favorevole all’amnistia perché spera che ne venga una via d’uscita per
Berlusconi. Ci sarà chi è contrario all’amnistia perché teme che ne venga una
via d’uscita per Berlusconi. Napolitano avrà fatto la tara, e si sarà augurato
che ci sia chi rifletta perché è in pena per l’inferno in cui stanno i
carcerati e le loro famiglie, e per il vicolo cieco in cui si trova la
giustizia. (Gli altri, quelli che sono comunque contro ogni clemenza perché
sono pieni di rancore e detestano il prossimo loro, non vanno considerati in
una categoria a parte, perché stanno indifferentemente nella prima e nella
seconda).
Ecco, penso che sia andata più o meno così.
Tornato del tutto nei miei panni, ho una cosa da dichiarare, per conflitto
d’interessi. Io devo gratitudine a Napolitano, perché non mi diede la grazia.
Avrei vissuto il mio tempo supplementare da graziato, sarebbe stata dura.
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