da: Il Fatto Quotidiano
Che
non si tratti soltanto della simbolica battaglia per consultazioni elettorali
davvero libere lo si capisce dai cartelli, dagli striscioni in piazza. Almeno
la metà affrontano altri temi. Sociali, più che politici. Ma nel nostro Paese i
coetanei dei manifestanti non conoscono neanche l'articolo 18
di Pio
D’Emilia
No. Corvi e gufari se la mettano via. Non
ci sarà un bagno di sangue, a Hong Kong. E non solo perché Pechino e la sua
nuova leadership – certamente più saggia e capace di molte altre – hanno
imparato la lezione e non guardano più alla globalizzazione come una minaccia
ma ne fanno sempre più parte integrante, e presto dominante. Non ci sarà un
bagno di sangue perché questi ragazzi – età media 18 anni – sono più saggi,
organizzati e determinati di quanto possa apparire a prima vista e perché sono
riusciti a conquistarsi non solo le scontate simpatie (non sempre gradite,
specie se espresse in salsa anticinese) dell’Occidente, ma anche e soprattutto
quelle dei comuni cittadini. Commercianti e operatori finanziari compresi, i
più colpiti, obiettivamente, dalla “rivoluzione degli ombrelli” che cova da
almeno un paio di anni e che è improvvisamente esplosa negli ultimi giorni.
Paradossalmente, il maldestro (e
pare deciso davvero localmente, senza precisi
ordini da Pechino) tentativo di reprimere la rivolta con gas peperino,
manganelli e lacrimogeni ha provocato l’effetto contrario. Anziché reprimere la
rivolta, ne ha enormemente aumentato il sostegno popolare. Anziché impaurire i
ragazzi, li ha rinvigoriti. Non so quanto resisteranno, questi ragazzi colti ed
educati, forse avrà ragione CY, come oramai tutti qui chiamano, un po’
affettuosamente, un po’ sarcasticamente, il governatore Leung Chun Ying: “Li
prenderemo per fame”. Ma che restino o meno in piazza, che continuino più o
meno ad occupare e “sabotare” il sistema non ha molta importanza. Come già è
accaduto ai tempi di Tien Anmen, possono solo vincere, anche perdendo.
Non ci sarà un bagno di sangue perché non
è, come molti media fanno credere, una rivolta contro la Cina, contro il
“comunismo” e nemmeno – o quanto meno non solo – contro la pretesa di Pechino
di “taroccare” le prossime elezioni politiche. Che saranno sì a suffragio
universale, come stabilisce la Basic Law (la “Costituzione” di Hong Kong), ma
con candidati “graditi” (e non “imposti”: c’è una certa differenza ) da
Pechino. E già qui verrebbe da dire che non ci sarebbe una grande differenza,
rispetto a quanto ahimè avviene, in Italia. Dove ci sono, è vero, più partiti.
Ma tutti quanti, chi più chi meno, propone/impone i propri candidati. Non
pigliamoci in giro, sbraitando contro la “dittatura” del PCC. All’interno del
quale la selezione, specie a livello locale, è abbastanza rigorosa e i cui
leader, ancorchè spesso corrotti, non sono certo né cialtroni né ignoranti.
I ragazzi di Hong Kong – che bello vederli
così determinati, impegnati, educati al punto da ripulire ogni sera le strade,
tornare a casa per farsi una doccia per poi tornare all’alba ed attaccar
discorso con tutti, compresi i poliziotti che a loro volta sembrano tra i più
educati e rispettosi delle regole al mondo – hanno altro in testa. Una vera e
propria rivoluzione, lenta e non violenta, che ricorda più Gandhi che i
boscevichi, più gli albori del’68, i sit in, le occupazioni “creative” degli
anni ’60 in Europa e Usa che le violente scorrerie dei Black Block. Questi
ragazzi sono scesi in piazza per costruire, non per distruggere. E la novità
(almeno per ora) che difronte hanno delle autorità che (forse) cominciano a
capirlo.
Che non si tratti soltanto della simbolica
battaglia per elezioni davvero libere alle quali chiunque possa candidarsi (e
Hong Kong, considerato che fa parte integrante della Cina, ha libertà
sconosciute in molte altre e più blasonate democrazie) lo si capisce dai
cartelli, dagli striscioni che vedi in giro. Almeno la metà affronta altri
temi. Sociali, più che politici. Che ci aggiornano su una situazione a Hong
Kong, che cozza con l’immagine della ricca ex colonia britannica popolata da
Paperon de Paperoni con gli occhi a mandorla, impegnati a giocare con i loro, e
i nostri, soldi. Da un gruppo di ragazzi accampati davanti alla Banca Centrale
apprendiamo ad esempio che un terzo della popolazione di Hong Kong vive in
povertà, che stipendi e soprattutto salari non crescono da anni, che la
voracità delle grande firme sta espellendo dal centro piccoli negozianti e
artigiani, che il tempo medio che i pendolari impiegano per andare a lavorare è
oramai vicino a quello – considerato inarrivabile – dei giapponesi a Tokyo. E
perfino che – udite udite – molti giovani sono costretti o semplicemente
desiderano “emigrare” all’estero. Ma non solo negli Usa o in Inghilterra. Anche
nel “mainland”: in Cina.
“Noi non siamo anticinesi – mi spiega Yeung
Yiu Kwan, un giovane che studia ingegneria e che spera di riuscire ad entrare
alla Statale di Pechino – anche perché siamo cinesi. Spero tanto che i nostri
due sistemi (sorride, mentre pronuncia queste parole, segno evidente che non le
condivide, essendo oramai i due sistemi molto simili tra loro n.d.a) possano
presto integrarsi completamente. Abbiamo molto da imparare dalla Cina, e loro
qualcosa da noi. Ma diritti umani e progresso sociale ed economico non possono
camminare a parte. Io sono qui perché voglio partecipare, impegnarmi, costruire
il futuro del mio paese, assieme ai miei concittadini. Ma se mi chiedi se abbia
più a cuore la questione delle elezioni libere o una società più equa, meno discriminatoria
e più rispettosa della dignità, che è cosa diversa dai diritti, umana ti
rispondo: la seconda” E mi mostra un articolo, con richiamo in prima pagina,
sul South China Morning Post (il giornale locale più venduto e che segue con
maggior attenzione le vicende di questi giorni). “Famiglie sul piede di guerra:
insostenibile l’aumento ottenuto dalle collaboratrici domestiche”. Sembra
incredibile: nel paese che sino a qualche anno fa svettava su tutti per il
numero di miliardari presenti nella tradizionale classifica di Forbes (oggi
superato dalla Cina) c’è chi protesta – con tanto di interrogazioni
parlamentari – perché le domestiche (sono oltre 300 mila, soprattuto filippine
e indonesiane) hanno ottenuto un aumento di 100 dollari HK (meno di dieci euro)
del salario minimo. Che è “balzato”, proprio in questi giorni, da 4.010 dollari
HK a 4.110. Circa 400 euro al mese. Meno della metà di quelli in vigore in
Europa e un terzo di quello in vigore in Canada.
Non pensavo, venendo qui, di trovare dei
giovani che manifestavano, in modo sereno, civile ma anche molto determinato,
anche per il salario minimo delle collaboratrici domestiche. In Italia i loro
coetanei a malapena sanno cos’è l’art.18. Pensavo fossero in piazza per una
libertà che tutto sommato già hanno, per libere elezioni che come tanti altri
popoli, non hanno e non avranno ancora per un po’, e per provocare l’odiata
Cina.
Rassegnatevi, gufi di tutto il mondo uniti,
non è così. Questi giovani non cercano guai, e a meno che qualche leader locale
o nazionale non esca di senno e provochi un altro pandemonio, non li
troveranno. Piuttosto mi chiedo: ma quando si decideranno, i nostri ragazzi, a
“occupare” l’Italia? Così, a prima vista, la situazione mi sembra ben peggiore
di quella che c’è qui a Hong Kong.
Nessun commento:
Posta un commento