da: La Stampa
Nel giro di pochi giorni la cosiddetta
«manovra» per il 2015 è passata da 20 a 30 miliardi di euro. Secondo Renzi «si
tratta della più grande operazione di taglio di tasse tentata in Italia e di
una spending review mai vista».
Ma in che cosa consiste la manovra?
Se dovessi spiegarla ai miei studenti la
metterei così. Cari ragazzi, quando un governo
fa una manovra ci sono sempre un
lato propagandistico e un lato effettivo.
Sono importanti entrambi, ma vanno tenuti
ben distinti.
Il lato
propagandistico è rilevante perché serve a comunicare le priorità del
governo. Con la manovra annunciata ieri, Renzi
ci dice tre cose tutte e tre sacrosante e condivisibili.
Primo: che vuole ridurre drasticamente gli sprechi della Pubblica amministrazione,
con una spending review di 13,3 miliardi.
Secondo: che vuole ridurre drasticamente le
tasse, con sgravi pari a 18 miliardi
di euro (di cui 10 per il rinnovo del bonus da 80 euro).
Terzo: che vuole azzerare i contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato.
Fin qui tutto bene, il messaggio è chiaro,
anche se in conflitto con quanto annunciato
in precedenti occasioni e documenti ufficiali (nell’ultima intervista sulla
spending review, ad esempio, i miliardi risparmiati non erano 13,3 ma 20, dopo
essere stati 17 fino al giorno prima).
Adesso però guardiamo il lato effettivo, ossia la sostanza della
manovra. Che cosa contiene
effettivamente la manovra da 30 miliardi di cui si sta parlando in questi
giorni?
Per capirlo dobbiamo dimenticare
completamente la parte propagandistica e rispondere a tre domande: di quanto diminuiscono le spese totali della
Pubblica amministrazione? Di quanto diminuiscono
le entrate? E’ realistica la promessa di azzerare i contributi sociali ai
nuovi assunti a tempo determinato?
Ed ecco le risposte, o meglio quel che si
riesce a capire in attesa di un documento ufficiale.
Le spese
della Pubblica amministrazione non si riducono affatto di 13,3 miliardi ma
solo di 4,1 miliardi, perché accanto ai 13,3 miliardi di tagli programmati ve
ne sono 9,2 di nuove spese, come il finanziamento degli ammortizzatori sociali,
gli obblighi contratti dal governo Letta, o le cosiddette spese inderogabili.
Le tasse
pagate dagli italiani non si riducono affatto di 18,3 miliardi, perché gli
sgravi promessi sono bilanciati da 5,2 miliardi di nuove entrate, e quindi la
riduzione effettiva della pressione fiscale scende a 13,1 miliardi di euro (che
comunque non è poco). Va da sé che la differenza fra minori tasse (13 miliardi
di sgravi) e minori spese (4 miliardi di riduzione della spesa pubblica) verrà
coperta in deficit, ovvero messa in conto alle generazioni future.
Quanto alle assunzioni a zero contributi bastano alcuni semplici calcoli per
scoprire che potranno riguardare al massimo 1 caso su 10, ossia 100-150 mila persone su oltre 1 milione e mezzo
di assunzioni a tempo indeterminato.
Fin qui i conti nudi e crudi. Ma, al di là
delle cifre, che giudizio si può dare della manovra?
Difficile fare valutazioni senza un testo
ufficiale. Per quel che riesco a capire, l’idea del governo è che aumentando il
deficit di circa 10 miliardi e ritoccando la struttura del bilancio pubblico si
possa dare una spinta significativa alla domanda interna. E’ una linea di keynesismo debole (facciamo deficit, ma
non troppo) che mi auguro possa funzionare, ma che si espone ad almeno un paio
di obiezioni.
La prima è che aumentare il deficit di «soli» 10 miliardi, e ridurre la pressione
fiscale di soli 13 miliardi, potrebbe non bastare a far ripartire i consumi
ma potrebbe essere più che sufficiente a far ripartire lo spread, con
conseguente ulteriore aggravio dei conti pubblici. Non so perché così pochi
osservatori lo facciano notare, ma è da circa un mese che la tendenza dello
spread dei titoli di Stato italiani è all’aumento, ossia al peggioramento. Ed è
da sei mesi che i mercati hanno ricominciato a differenziare i rendimenti
richiesti ai vari Paesi dell’euro, un comportamento che nel 2011 ha preceduto e
annunciato la bufera finanziaria che portò alla caduta di Berlusconi e
all’insediamento di Monti. In questo senso la mossa di Renzi di aumentare il
deficit anziché ridurlo potrebbe rivelarsi un azzardo.
La seconda obiezione è che il meccanismo
previsto per stimolare le assunzioni,
ossia la cancellazione dei contributi
sociali per gli assunti a tempo determinato, ha tre difetti abbastanza gravi: riguarda pochissimi lavoratori
(perché con 1 miliardo non si può fare molto), non si finanzia da sé (perché
non aumenta in modo apprezzabile il Pil), ha effetti occupazionali trascurabili
(perché non è vincolato al requisito di aumentare gli occupati).
E’ proprio per evitare simili inconvenienti
che, nei giorni scorsi, su questo giornale abbiamo provato ad aprire una discussione
su una proposta alternativa, quella
di un contratto a decontribuzione totale
ma riservato alle imprese che incrementano l’occupazione (il job-Italia).
Un contratto che, secondo le stime della fondazione David Hume, creerebbe
almeno 300 mila nuovi posti di lavoro all’anno, e non costerebbe nulla allo
Stato.
Non so se la nostra proposta sia la più
efficace possibile, ma resto convinto che creare nuovi posti di lavoro, tanti
nuovi posti di lavoro, sia una priorità assoluta per il nostro Paese, perché è
la mancanza di lavoro l’elemento che più differenzia noi (e la Grecia) da tutte
le altre economie avanzate. E’ questo, a mio parere, il terreno più importante
su cui la manovra andrebbe giudicata: perché è questo il terreno su cui si
gioca il futuro dell’Italia.
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