da: Il Fatto Quotidiano
Chissà che cosa scriverà, ora, chi aveva
teorizzato che la testimonianza di Napolitano era inutile, superflua, un
pretestuoso accanimento dei pm di Palermo a caccia di vendette per il conflitto
di attribuzioni, un pretesto per “mascariare” il presidente della Repubblica
agli occhi degli italiani e del mondo intero, per trascinarlo nel fango della
trattativa Stato-mafia, per spettacolarizzare mediaticamente un processo già
morto in partenza sul piano del diritto, naturalmente per violare le sue
prerogative autoimmunitarie, e altre scemenze.
Quel che è accaduto ieri nella vecchia Sala
Oscura del Quirinale è la smentita più plateale e, per certi versi,
sorprendente di tutti gli inutili (quelli sì) fiumi d’inchiostro versati per un
anno e mezzo da corazzieri, paggi e palafrenieri di complemento che, con l’aria
di difendere Giorgio Napolitano, hanno guastato forse irrimediabilmente la sua
immagine pubblica, spingendolo a trincerarsi dietro segreti immotivati,
privilegi inesistenti, regole riscritte ad (suam) personam e spandendo
tutt’intorno a lui una spessa e buia cortina fumogena che ha indotto molti
cittadini a sospettare. Quando ieri, finalmente, il capo dello Stato s’è
trovato di fronte ai giudici e ai giurati della Corte d’Assise, ai quattro pm e
ai legali degli imputati (mafiosi, carabinieri e politici) e delle parti
civili, è
stato lui stesso a dissipare – per quanto possibile – tutto quel
fumo. Facendo la cosa più normale: rispondere alle domande dicendo la verità,
come ogni testimone che si rispetti. E, finalmente libero dai cattivi
consiglieri, ha preso atto che la ricerca della verità è il solo movente che
anima i giudici e i pm di questo processo: nessuno vuole incastrare o
screditare nessuno, tutti vogliono sapere cos’accadde fra il 1992 e il 1993, mentre
Cosa Nostra attaccava il cuore dello Stato e pezzi dello Stato la aiutavano a
ricattarlo, scendendo a patti e firmando cambiali in bianco. Insomma, ha detto
la verità. E così, consapevolmente o meno, ha fornito un assist insperato alla
Procura di Palermo.
L’AUT
AUT
Ripercorrendo i suoi ricordi e anche i suoi
appunti di ex presidente della Camera, Napolitano ha fornito un contributo che
forse nemmeno i magistrati si aspettavano così nitido e prezioso, confermando
in pieno l’ipotesi accusatoria alla base del processo: che, cioè, i vertici
dello Stato sapessero benissimo chi e perché metteva le bombe. Per porre le
istituzioni dinanzi a quello che Napolitano ha definito un “aut aut”: o lo
Stato allentava la pressione e la repressione antimafia, cominciando dall’alleggerimento
del 41-bis, oppure si consegnava alla strategia destabilizzante di Cosa Nostra,
che avrebbe seguitato ad alzare il tiro dello stragismo per rovesciare l’ordine
costituzionale. I fatti – all’epoca sconosciuti a Napolitano, ma persino al premier
Carlo Azeglio Ciampi – ci dicono che fra il giugno e il novembre del 1993
quell’allentamento ci fu: prima – all’indomani della bomba in via Fauro a Roma
e della strage in via dei Georgofili a Firenze – con la rimozione al vertice
delle carceri del “duro” Nicolò Amato, rimpiazzato con il “molle” Adalberto
Capriotti e col suo vice operativo Francesco Di Maggio; poi – in seguito
all’eccidio di via Palestro a Milano e alle bombe alle basiliche romane di San
Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano (Giorgio come il presidente della
Camera Napolitano, Giovanni come Spadolini presidente del Senato) – con la
revoca del 41-bis a centinaia di mafiosi. Il risultato, in simultanea con gli
ultimi preparativi per la nascita di Forza Italia (da un’idea di Marcello
Dell’Utri) e la discesa in campo di Silvio Berlusconi, fu la fine delle stragi.
O meglio, la loro sospensione sine die, per dare a chi aveva chiuso la
trattativa il tempo e il modo di pagare le cambiali. “Violenza o minaccia a
corpo politico dello Stato”, cioè al governo, anzi ai governi italiani: questa
è l’accusa formulata dalla Procura (e confermata dal Gup) agli imputati di
mafia e di Stato. Un’accusa che la lunga testimonianza di Napolitano sull’“aut
aut” mafioso – tutt’altro che inutile, anzi fra le più utili fin qui raccolte –
ha clamorosamente rafforzato.
LA
LETTERA
Il contributo meno interessante Napolitano
l’ha fornito a proposito di un passo della lettera di dimissioni che gli inviò
il 18 giugno 2012 il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, nel pieno
delle polemiche per le sue telefonate con Nicola Mancino: “Lei sa di ciò che ho
scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che, in quelle
poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che
mi preoccupano e fanno riflettere…”. Napolitano sostiene che D’Ambrosio non gli
disse nulla, anche se riconosce che poi nel libro della Falcone quegli episodi
non li raccontò. Ha trovato anche la lettera dattiloscritta che il consigliere
inviò alla Falcone, ma assicura ai pm che il testo è identico a quello poi
pubblicato. “… (episodi) che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo
ipotesi – di cui ho detto anche ad altri…”. Quell’“anche ad altri” fa pensare,
per la seconda volta, che ne abbia parlato anche con Napolitano. Il quale però
nega. “…quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato
solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili
accordi”. Il presidente riconosce che si tratta di frasi “drammatiche”. Perché
allora non ne chiese conto al suo collaboratore dopo averle lette? La risposta
è evasiva: quando, l’indomani, parlò con D’Ambrosio, lo fece soltanto per
convincerlo a ritirare le dimissioni e non affrontò con lui il tema degli
“indicibili accordi”. Ora, visto che D’Ambrosio è morto e gli “altri”
destinatari delle sue confidenze sono ignoti, il giallo rimane insoluto.
IL
1992
Anche sul 1992 – quando inizia l’attacco
ricattatorio di Cosa Nostra allo Stato dopo la sentenza della Cassazione sul
maxiprocesso, con il delitto Lima, la strage di Capaci, l’inizio della
trattativa del Ros con Vito Ciancimino (intermediario prima con Riina poi con
Provenzano), la mattanza di via D’Amelio, l’accantonamento di Ciancimino e le
trame di Provenzano per consegnare Riina ai carabinieri – Napolitano ha poco da
dire. Se non che ricorda bene come, alla Camera da lui presieduta, il decreto
Scotti-Martelli sul 41-bis, varato il 6 giugno subito dopo Capaci, si arenò e
occorse l’omicidio di Borsellino perché il Parlamento lo convertisse in legge
il 1° agosto. E che, stranamente, il neopresidente dell’Antimafia Luciano
Violante, suo compagno di partito, rivelò anche a lui che Ciancimino voleva
esser convocato e sentito in commissione (cosa che Violante promise di fare, e
poi misteriosamente non fece mai). Per la verità, a raccomandare don Vito per
un incontro a tu per tu con Violante, era stato proprio il colonnello Mario
Mori, ma questo il compagno Luciano non lo disse al compagno Giorgio. Perché il
presidente dell’Antimafia avvertì proprio il presidente della Camera di quella
richiesta di Ciancimino? Napolitano non sa spiegarselo.
IL
1993
Dopo la cattura pilotata di Riina, Cosa
Nostra si rifà sotto a suon di bombe per costringere lo Stato a piegarsi. Roma
e Firenze a maggio. Poi Milano e di nuovo Roma nella notte fra il 27 e il 28
luglio. Il presidente ricorda che subito, fin dal 29 luglio, “la Triade”
Scalfaro-Spadolini-Napolitano, cioè i massimi vertici dello Stato che
condividevano tutte le conoscenze (mutuate dall’intelligence e dalle forze
investigative) su quel che stava accadendo, erano certi che anche quelle stragi
avevano una matrice mafiosa (“corleonese”, specifica il presidente) e un
movente ricattatorio, estorsivo. Napolitano ricorda di averne parlato col
presidente Scalfaro e forse, ma non lo ricorda con precisione, col premier
Ciampi. Il quale, dopo il black out dei centralini di Palazzo Chigi nella notte
delle bombe, dirà di aver temuto un colpo di Stato e tirerà in ballo la P2. Non
solo Cosa Nostra voleva ricattare lo Stato: ma i massimi esponenti dello Stato
si sentivano sotto ricatto di Cosa Nostra. Napolitano ricorda una imprecisata
“pubblicistica” che già all’epoca avrebbe riferito di due correnti divergenti
fra i corleonesi: l’ala guerrafondaia e un’ala più morbida (quella di
Provenzano). In realtà nessuno allora scrisse mai nulla del genere: lo disse il
ministro dell’Interno Mancino, nel dicembre ’92, poco prima della cattura di
Riina, in un’incredibile intervista al Giornale di Sicilia. Poi si giustificò
con i pm sostenendo di averlo saputo da Pino Arlacchi, consulente della Dia. Ma
l’allora capo della Dia, Gianni De Gennaro, ha smentito: in quei mesi riiniani
e provenzaniani risultavano una cosa sola, anzi si pensava che Provenzano fosse
addirittura morto. Solo chi trattava con Ciancimino, e dunque con Provenzano,
sapeva che quest’ultimo era vivo e si era smarcato dall’ala stragista. Ma su
questi fatti Napolitano non ha nulla di utile da riferire.
TUTTI
SAPEVANO
In una nota del Sismi appena scoperta e
depositata dai pm, datata 29 luglio ’93 (il giorno dopo le stragi di Milano e
Roma), si legge: “Tra il 16 ed il 20 agosto ci sarà un attentato che non sarà
portato a monumenti o a teatri, ma a persone. A livello grosso. Una strage. Poi
si faranno ad uno grosso (inteso in senso di personalità politica). Spadolini e
Napolitano, uno vale l’altro. Gli autori sono sempre i soliti: quelli là
(riferito ai corleonesi?) d’accordo coi grossi (riferito ai politici) e coi
massoni”. Parole che fanno scopa con quelle pronunciate ieri da Napolitano, che
fra l’altro ha ricordato il rafforzamento delle misure di sicurezza sulla sua
persona proprio in quei giorni. Perché è così importante, per la pubblica
accusa, la testimonianza del presidente sulla matrice corleonese e sulla
finalità ricattatoria delle stragi dell’estate ’93 come consapevolezza comune e
unitaria fin da subito presso i massimi vertici dello Stato? 1) Perché, della
“triade”, Napolitano è l’unico superstite: Scalfaro e Spadolini sono morti, e
così l’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi, uomo-chiave di quella
stagione, anche per il suo filo diretto con Scalfaro. 2) Perché nessun altro
uomo delle istituzioni di allora è mai stato così chiaro ed esplicito sul
livello di consapevolezza dei rappresentanti dello Stato sul significato
dell’offensiva stragista di Cosa Nostra: una lunga sfilza di politici smemorati
e/o reticenti. 3) Perché, se già il 29 luglio ’93 si sapeva che le bombe in via
Palestro e contro le basiliche erano roba di mafia per piegare lo Stato, non si
comprende quel che accadde subito dopo.
PISTE
E DEPISTAGGI
Il 6 agosto ’93, attorno a un tavolo del
Cesis (il comitato che coordinava i servizi segreti militare e civile), si
riunirono i capi dell’intelligence, ma anche il capo della Polizia Parisi, il
capo della Dia De Gennaro, il vicecomandante del Ros Mori e il vicecapo e uomo
forte del Dap Francesco Di Maggio. E se ne uscirono con una fumosa relazione,
sulle bombe della settimana precedente, piena di piste fasulle al limite del
depistaggio: oltre all’eventuale matrice mafiosa, ipotizzarono quella del
terrorismo serbo, o palestinese, o del narcotraffico internazionale. Del resto,
se gli apparati e i servizi avessero davvero avuto dubbi sulla pista mafiosa
per strappare allo Stato un cedimento sul 41-bis, cioè sul trattamento dei boss
detenuti, perché mai invitare a quel tavolo un estraneo come il vicecapo delle
carceri Di Maggio? Fin da giugno, il suo superiore Capriotti aveva scritto al
ministro Conso sollecitando un taglio lineare dei 41-bis per “dare un segnale di
distensione nelle carceri”. E proprio per accelerarlo Cosa Nostra aveva
seminato morte e terrore in quella primavera-estate. Infatti appena quattro
giorno dopo il vertice al Cesis, il 10 agosto, De Gennaro firmò un rapporto
della Dia, destinato a Mancino e a Violante, che metteva nero su bianco la
pista mafioso-trattativista delle bombe e invitava il governo a non cedere sul
41-bis: “È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale… del 41-bis
potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla
stagione delle bombe”. Un modo per smarcarsi dal fumoso e depistante rapporto
del Cesis, che pure lo stesso De Gennaro aveva siglato? Un mese dopo, 11
settembre, lo Sco della Polizia, guidato da Antonio Manganelli, fu ancora più
esplicito, usando per la prima volta il termine “trattativa” in una nota
inviata all’Antimafia di Violante: “Obiettivo della strategia delle bombe
sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con lo Stato per la
soluzione dei principali problemi che affliggono l’organizzazione: il
‘carcerario’ e il ‘pentitismo’… Creare panico, intimidire, destabilizzare,
indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui
conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali”.
Più chiaro di così…
LO
SBRACO
Anche questo allarme, come i precedenti,
viene ignorato sia da Mancino sia da Violante. E il 5 novembre il ministro
Conso non rinnova il 41-bis in scadenza a 334 mafiosi detenuti, contro il
parere negativo della Procura di Palermo. Ma in ossequio alla sollecitazione
che gli veniva dal nuovo capo del Dap fin da giugno. Per negare l’evidente
cedimento al ricatto mafioso, Conso s’è trincerato dietro il rapporto del Cesis
che ipotizzava matrici diverse da quella di Cosa Nostra per le stragi
dell’estate. Ma, oltre ai rapporti Dia e Sco, a smentirlo ora c’è anche la
parola di Napolitano: i vertici dello Stato sapevano fin da subito che era
stata Cosa Nostra per ricattarlo. E lo Stato sbracò.
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