sabato 18 ottobre 2014

Processo Berlusconi-Ruby: le dimissioni del giudice Enrico Tranfa contro la sentenza assolutoria



da: Corriere della Sera

Il giudice che si è dimesso per il caso Ruby: un fatto di coscienza, ci ho pensato tre mesi. «Non me la sento di decidere domani per un marocchino in modo diverso rispetto a Berlusconi»
di Luigi Ferrarella

Dai piani alti della Corte d’appello di Milano, nella tarda serata di giovedì, avevano provato a rivolgergli un ultimo pressante appello a ripensarci, o a prendersi almeno un altro po’ di tempo per riflettere: «Ci ho già riflettuto negli ultimi tre mesi», si erano però sentiti rispondere dal giudice Enrico Tranfa, con un riferimento cronologico (appunto i 90 giorni per il deposito della motivazione della sentenza del processo Ruby del 18 luglio scorso) che legava esplicitamente e inequivocabilmente la sue clamorose dimissioni dalla magistratura a un insanabile contrasto in camera di consiglio con gli altri due colleghi sull’assoluzione di Silvio Berlusconi, e sulle motivazioni di questo ribaltone rispetto alla condanna di primo grado a 7 anni per concussione e prostituzione minorile.
E del resto ieri qualcosa di analogo hanno sperimentato, se possibile ancora più nitidamente, almeno una mezza dozzina di magistrati milanesi che — per
esprimere solidarietà e apprezzamento a Tranfa o invece per manifestargli incredulità e disappunto —, dopo aver letto la notizia delle dimissioni del presidente di quel collegio e dell’intera seconda sezione penale della Corte d’appello, l’hanno chiamato al telefono per capire che cosa lo avesse spinto a un gesto così dirompente da non avere precedenti nella storia giudiziaria italiana: «La mia coscienza. Non me la sento di giudicare domani un marocchino in un modo diverso da quanto fatto con Berlusconi», riferiscono che Tranfa abbia risposto loro. Segno che il giudice, abbandonata la toga giovedì immediatamente dopo aver firmato le 330 pagine delle motivazioni della sentenza di assoluzione frutto della camera di consiglio del 18 luglio scorso, dopo 39 anni di servizio ha scelto di andare in pensione con 15 mesi di anticipo sul previsto come protesta per quella che, nella sua percezione, evidentemente sarebbe l’incompatibilità del metro di misura quotidiano rispetto allo standard probatorio adoperato per analizzare le prove a favore o contro l’ex presidente del Consiglio.
Alle agenzie di stampa e tv che gli domandavano delle dimissioni, Tranfa si è invece limitato a confermarle, ribadendo di non voler aggiungere altro se non il fatto che la sua sarebbe stata «una decisione molto meditata, perché in vita mia non ho fatto niente di impulso. Tutti sono utili, nessuno è indispensabile».
«Ne prendo atto e mi preoccupo di assicurare la funzionalità della sezione», è stato ieri mattina il commento del presidente dell’intera Corte d’appello di Milano, Gianni Canzio, mentre anche gli altri due giudici del collegio (la relatrice delle motivazioni, Ketty Locurto, e il consigliere Alberto Puccinelli) sono stati presi completamente di sorpresa dalle dimissioni del collega, che avevano salutato giovedì mattina al momento del deposito e della firma della sentenza. Canzio ha ugualmente chiesto a Tranfa (benché questi ormai non indossi più la toga) un colloquio di persona nei prossimi giorni; e, per non lasciare la seconda sezione senza guida, ha intanto diramato un interpello interno che già nel giro di pochi giorni dovrebbe riassicurarne la funzionalità con un presidente supplente.
Sul caso, nel frattempo, monta già la contrapposta lettura politica: «Solidarietà e un profondo senso di vicinanza nei riguardi del giudice Tranfa che lascia la toga con un gesto fermo e dignitoso» vengono ad esempio espressi dalla vicepresidente del Partito democratico, l’onorevole Sandra Zampa (ex portavoce di Prodi), e dalla senatrice pd Donella Mattesini, per la quale «il nostro sistema giudiziario dimostra tutta la sua debolezza quando si tratta di garantire i diritti dei più indifesi, in questo caso minori vittime di reati sessuali».
Da Forza Italia rispondono l’onorevole Luca D’Alessandro («Uno così fazioso, da lasciare la toga per non essere riuscito a condannare Berlusconi in un processo farsa e guardone come il processo Ruby, non avrebbe mai dovuto fare il giudice e dovrebbe essere dimenticato»), e l’ex ministro della Giustizia, Nitto Palma, secondo il quale «il primo a non rispettare la sentenza è proprio il presidente di quel collegio che l’ha emessa: per certi versi mi ricorda il bambino padrone della palla, che se la portava via ogni qualvolta gli veniva negato un calcio di rigore».

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