da: la Repubblica
Ha ragione Renzi a sostenere che non
saranno le grandi manifestazioni, ma gli atti concreti, a sconfiggere il
precariato. Per questo, bene che il suo governo vada al di là degli slogan.
E dica cosa vuol fare concretamente con la
legge delega su cui è orientato a chiedere la fiducia anche alla Camera.
Paradossalmente sia i volantini della Cgil per la manifestazione di sabato che
molti interventi alla Leopolda hanno perorato la causa del contratto a tutele
crescenti che dovrebbe rappresentare l’asse portante delle politiche di
stabilizzazione del precariato.
Ma, a quanto pare, tra Roma e Firenze si
sono scontrate due concezioni molto diverse di questo contratto e di queste
tutele crescenti. Bene che gli italiani e non solo gli iscritti al Pd siano
messi al corrente dei termini della tenzone e possano valutare cosa vuol fare
il governo e cosa propone il sindacato maggioritario a riguardo. Fondamentale
fare in fretta in questa opera di “sdoganamento” perché il tempo a disposizione
è davvero molto poco: il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele
crescenti dovrà vedere la luce entro Natale per beneficiare dei potenti sgravi
contributivi previsti dalla legge di Stabilità. Se non godrà di questi sgravi
rischia di non decollare affatto perché
verrà spiazzato dai contratti a tempo
determinato, quelli che il decreto Poletti varato ai primi atti del governo
Renzi, ha reso una specie di periodo di prova di tre anni. Al tempo stesso, gli
effetti della manovra sull’occupazione rischiano di venire fortemente
ridimensionati da una mancata approvazione entro fine anno del Jobs Act. I
datori di lavoro aspetteranno di sapere quanto avviene ai contratti di lavoro,
prima di procedere a nuove assunzioni. Presumibilmente stanno già agendo in
questo modo e avremo un calo delle assunzioni a novembre e dicembre e un picco
a inizio anno, ma solo a Jobs Act approvato.
Le sorti della legge di Stabilità e del cosiddetto Jobs Act sono perciò strettamente intrecciate, per certi aspetti indissolubili. Eppure la discussione parlamentare dei due provvedimenti procederà su binari separati, in diversi rami del Parlamento (il Jobs Act andrà alla Camera, la legge di Stabilità andrà prima alla Camera e poi al Senato) e in commissioni distinte (Bilancio e Lavoro). Fondamentale invece che il confronto parlamentare sui due provvedimenti proceda in modo coordinato alla luce dei chiarimenti che il governo deve dare circa le sue effettive intenzioni sul Jobs Act. Paradossale se la Camera fosse chiamata a votare a occhi chiusi un testo ultragenerico quando in realtà il governo avrà già predisposto un decreto attuativo con misure molto specifiche sulla materia più spinosa, quella che riguarda i costi dei licenziamenti dai contratti a tempo indeterminato.
Il coordinamento nell’iter parlamentare dei due provvedimenti è necessario non solo per una questione di metodo. Il fatto è che, alla luce della legge di Stabilità, c’è un rischio non piccolo di rendere il nuovo contratto a tempo indeterminato una nuova forma di lavoro precario, anziché una misura di stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Infatti la manovra introduce sgravi contributivi molto forti, tali da ridurre di circa un terzo il costo del lavoro per l’impresa. Questi sgravi, a differenza del contratto che li sorregge, non sono a tempo indeterminato, ma scadono tutto d’un colpo, tre anni dopo l’avvio del contratto. Il Jobs Act, invece, dovrebbe permettere alle imprese di licenziare un lavoratore pagando una somma stabilita per legge e gradualmente crescente nell’anzianità aziendale, senza discontinuità. Se il modo con cui questa tutela monetaria cresce all’aumentare dell’anzianità aziendale dovesse essere inferiore agli sgravi contributivi, c’è un rischio non indifferente di alimentare un carosello di lavori temporanei sui contratti a tempo indeterminato.
Prendiamo il caso di un lavoratore assunto
col nuovo contratto a tempo indeterminato e supponiamo che le tutele che il
governo è intenzionato a introdurre comportino un mese di indennità all’anno in
caso di licenziamento, oppure due giorni e mezzo per ogni mese passato in
azienda con quel contratto. Al termine dei primi sei mesi, il datore di lavoro
potrà licenziare il dipendente pagando 15 giorni di retribuzione e assumere un
altro lavoratore che costa due mesi di retribuzione in meno di chi se ne è andato
(essendo che il conteggio dei tre anni parte 6 mesi più tardi). In altre
parole, se i costi crescenti dei licenziamenti dovessero essere di molto
inferiori a un terzo della retribuzione sin lì ricevuta dal dipendente, il
rischio di queste sostituzioni non è da escludere, soprattutto in mansioni che
hanno un forte grado di stagionalità. È perciò fondamentale affrontare i due
provvedimenti in modo coordinato, magari rendendo gradualmente decrescente la
decontribuzione oppure rafforzando il modo con cui le indennità monetarie
crescono al passare del tempo oppure ancora imponendo il requisito
dell’addizionalità, vale a dire che l’azienda che utilizza gli sgravi debba
aumentare l’occupazione anziché sostituire chi era già assunto. Quel che è
certo è che questi intricati dettagli (ci scusino i lettori!) non sono materie
da piazze e da convegni. Ma sono maledettamente importanti. Speriamo che tra
chi ci governa e chi rappresenta i lavoratori prevalga perciò il senso di
responsabilità e la voglia di confrontarsi su questioni molto concrete. Il
tempo per le adunate dei sostenitori è scaduto questo fine settimana.
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