martedì 28 ottobre 2014

Tito Boeri: “Governo e sindacato battano un colpo”



da: la Repubblica 

Ha ragione Renzi a sostenere che non saranno le grandi manifestazioni, ma gli atti concreti, a sconfiggere il precariato. Per questo, bene che il suo governo vada al di là degli slogan.
E dica cosa vuol fare concretamente con la legge delega su cui è orientato a chiedere la fiducia anche alla Camera. Paradossalmente sia i volantini della Cgil per la manifestazione di sabato che molti interventi alla Leopolda hanno perorato la causa del contratto a tutele crescenti che dovrebbe rappresentare l’asse portante delle politiche di stabilizzazione del precariato.

Ma, a quanto pare, tra Roma e Firenze si sono scontrate due concezioni molto diverse di questo contratto e di queste tutele crescenti. Bene che gli italiani e non solo gli iscritti al Pd siano messi al corrente dei termini della tenzone e possano valutare cosa vuol fare il governo e cosa propone il sindacato maggioritario a riguardo. Fondamentale fare in fretta in questa opera di “sdoganamento” perché il tempo a disposizione è davvero molto poco: il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti dovrà vedere la luce entro Natale per beneficiare dei potenti sgravi contributivi previsti dalla legge di Stabilità. Se non godrà di questi sgravi rischia di non decollare affatto perché
verrà spiazzato dai contratti a tempo determinato, quelli che il decreto Poletti varato ai primi atti del governo Renzi, ha reso una specie di periodo di prova di tre anni. Al tempo stesso, gli effetti della manovra sull’occupazione rischiano di venire fortemente ridimensionati da una mancata approvazione entro fine anno del Jobs Act. I datori di lavoro aspetteranno di sapere quanto avviene ai contratti di lavoro, prima di procedere a nuove assunzioni. Presumibilmente stanno già agendo in questo modo e avremo un calo delle assunzioni a novembre e dicembre e un picco a inizio anno, ma solo a Jobs Act approvato.

Le sorti della legge di Stabilità e del cosiddetto Jobs Act sono perciò strettamente intrecciate, per certi aspetti indissolubili. Eppure la discussione parlamentare dei due provvedimenti procederà su binari separati, in diversi rami del Parlamento (il Jobs Act andrà alla Camera, la legge di Stabilità andrà prima alla Camera e poi al Senato) e in commissioni distinte (Bilancio e Lavoro). Fondamentale invece che il confronto parlamentare sui due provvedimenti proceda in modo coordinato alla luce dei chiarimenti che il governo deve dare circa le sue effettive intenzioni sul Jobs Act. Paradossale se la Camera fosse chiamata a votare a occhi chiusi un testo ultragenerico quando in realtà il governo avrà già predisposto un decreto attuativo con misure molto specifiche sulla materia più spinosa, quella che riguarda i costi dei licenziamenti dai contratti a tempo indeterminato.

Il coordinamento nell’iter parlamentare dei due provvedimenti è necessario non solo per una questione di metodo. Il fatto è che, alla luce della legge di Stabilità, c’è un rischio non piccolo di rendere il nuovo contratto a tempo indeterminato una nuova forma di lavoro precario, anziché una misura di stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Infatti la manovra introduce sgravi contributivi molto forti, tali da ridurre di circa un terzo il costo del lavoro per l’impresa. Questi sgravi, a differenza del contratto che li sorregge, non sono a tempo indeterminato, ma scadono tutto d’un colpo, tre anni dopo l’avvio del contratto. Il Jobs Act, invece, dovrebbe permettere alle imprese di licenziare un lavoratore pagando una somma stabilita per legge e gradualmente crescente nell’anzianità aziendale, senza discontinuità. Se il modo con cui questa tutela monetaria cresce all’aumentare dell’anzianità aziendale dovesse essere inferiore agli sgravi contributivi, c’è un rischio non indifferente di alimentare un carosello di lavori temporanei sui contratti a tempo indeterminato.
Prendiamo il caso di un lavoratore assunto col nuovo contratto a tempo indeterminato e supponiamo che le tutele che il governo è intenzionato a introdurre comportino un mese di indennità all’anno in caso di licenziamento, oppure due giorni e mezzo per ogni mese passato in azienda con quel contratto. Al termine dei primi sei mesi, il datore di lavoro potrà licenziare il dipendente pagando 15 giorni di retribuzione e assumere un altro lavoratore che costa due mesi di retribuzione in meno di chi se ne è andato (essendo che il conteggio dei tre anni parte 6 mesi più tardi). In altre parole, se i costi crescenti dei licenziamenti dovessero essere di molto inferiori a un terzo della retribuzione sin lì ricevuta dal dipendente, il rischio di queste sostituzioni non è da escludere, soprattutto in mansioni che hanno un forte grado di stagionalità. È perciò fondamentale affrontare i due provvedimenti in modo coordinato, magari rendendo gradualmente decrescente la decontribuzione oppure rafforzando il modo con cui le indennità monetarie crescono al passare del tempo oppure ancora imponendo il requisito dell’addizionalità, vale a dire che l’azienda che utilizza gli sgravi debba aumentare l’occupazione anziché sostituire chi era già assunto. Quel che è certo è che questi intricati dettagli (ci scusino i lettori!) non sono materie da piazze e da convegni. Ma sono maledettamente importanti. Speriamo che tra chi ci governa e chi rappresenta i lavoratori prevalga perciò il senso di responsabilità e la voglia di confrontarsi su questioni molto concrete. Il tempo per le adunate dei sostenitori è scaduto questo fine settimana.

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