da: Il Fatto Quotidiano
La strategia di Matteo Renzi è spericolata, ma i conti pubblici non offrono molte alternative: il premier vuole assolutamente che il Senato approvi con voto di fiducia la legge delega sul lavoro mercoledì, in modo da trasformare il vertice di Milano con i capi di governo di tutta Europa in uno spot continentale per l’abolizione dell’articolo 18. Solo così può sperare di ottenere qualche risultato nel difficilissimo mese che lo aspetta, quello in cui il governo italiano dovrà duellare con la Commissione europea sui numeri della legge di Stabilità. Il settimanale Economist, parlando della nuova coppia anti-rigore formata da Renzi e dal premier francese Manuel Valls, ha scritto: “La disciplina imposta dalla Commissione europea dovrebbe essere allentata soltanto se Vallenzi (Valls+Renzi) riescono ad attuare le riforme promesse”. Renzi sa che a Bruxelles, e a Francoforte, alla Bce di Mario Draghi, la pensano così.
Serve un voto parlamentare e serve sul
lavoro. Non tanto perché qualcuno creda davvero che ritoccando l’articolo 18
sul reintegro in caso di licenziamento ingiusto succedano miracoli, ma perché
all’estero considerano il lavoro il vero problema italiano. I numeri forniti
dall’Ocse, il think tank dei Paesi ricchi, sono questi. Tra 2007 e 2012, la
quantità di Pil prodotta per ogni ora lavorata in Italia
è scesa dello 0,3 per
cento, mentre il costo del lavoro per unità di prodotto è salito del 2,2 per
cento e i salari dell’1,9. Le imprese pagano di più, i lavoratori incassano di
più ma producono meno. Nello stesso periodo in Germania il Pil prodotto per ora
è cresciuto dello 0,3, il costo del lavoro è cresciuto meno che in Italia
(+2,1) e i salari invece ancora di più (+2,4). Se guardiamo agli Stati Uniti,
poi, il confronto è deprimente: +1,5 per cento il Pil per ora lavorata,
soltanto +0,7 il costo del lavoro e ben +2,3 i salari. Renzi ha quindi assoluto
bisogno di dare il segnale che sta affrontando il problema della scarsa
competitività dell’economia. E visto che a Bruxelles nessuno crede più alle
promesse, gli serve avere almeno un voto parlamentare.
Il passo successivo è cercare di ottenere
che alcune spese legate alla riforma – quella più rilevante è l’adeguamento
degli ammortizzatori sociali – non concorrano al calcolo del deficit per i
parametri europei: quello nel 2014 è già previsto al 3 per cento, ogni spesa
extra farebbe scattare la procedura d’infrazione. A meno che non venga concessa
una deroga.
Renzi ha quindi insistito moltissimo per
convocare il vertice di domani a Milano: una “conferenza” inutile, che non
produrrà decisioni operative e neppure documenti, ma che costringerà i capi di
governo d’Europa ad applaudire le riforme renziane, dando al governo italiano
più forza negoziale a Bruxelles. La scommessa è che Renzi riuscirà a impostare
qualcosa di concreto sulla flessibilità contabile, nel Consiglio europeo del 22
ottobre e poi in quello di dicembre dove il presidente della Commissione Jean
Claude Juncker presenterà i dettagli del suo piano anti-recessione da 300
miliardi di euro.
Per certi aspetti il momento è favorevole:
la Francia ha annunciato che non ha intenzione di ridurre drasticamente il
deficit, ormai fuori controllo al 4,4 per cento del Pil. La Germania comincia a
sentirsi insicura: ad agosto gli ordini del settore manifatturiero sono
crollati del 5,7 per cento rispetto a luglio. Andrea Rees, analista di
Unicredit, nota che la colpa è da attribuire a fattori tecnici come i pochi
giorni lavorativi di agosto che hanno fatto anticipare molti ordini a luglio,
ma si intravede anche, per la prima volta, “una vera debolezza dei
fondamentali”. Le aziende sono pessimiste sull’avvenire e le ripercussioni
delle crisi geopolitiche, soprattutto quella Russia, cominciano a farsi
sentire. La Francia ribelle e la Germania indebolita sono funzionali ai piani
di Renzi. Ma non è così semplice.
La cancelliera Angela Merkel non ama
trovarsi in difficoltà. E da Berlino hanno fatto capire che a Milano eviterà in
tutti i modi di trovarsi sullo stesso palco con il presidente francese François
Hollande, che si rifiuta di obbedire a regole di matrice tedesca approvate
pochi anni fa anche dalla stessa Francia. L’asse franco-tedesco che per decenni
ha governato l’Europa si è rotto, Renzi spera di approfittarne ma non è detto
che abbia la capacità diplomatica necessaria per riuscirci. Intanto vuole
incassare il primo voto favorevole alla riforma del lavoro, poi deve incrociare
le dita e pregare che il caos europeo si evolva nella direzione a lui più
favorevole.
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