da: Il Fatto Quotidiano
Il
nodo del rifiuto di deporre per evitare il capomafia.Ma se la Corte lascuiasse
a casa il boss imputato il procedimento potrebbe azzerarsi
Io ho studiato diritto penale sul miglior manuale che ci sia mai stato: quello del prof. Francesco Antolisei.
Faceva sembrare facili le cose difficili,
il che è prerogativa esclusiva di chi sa davvero quello che dice. Ed era solito
utilizzare esempi, allegorie e metafore (spesso caratterizzate da un humour
inaspettato) che scolpivano l’argomento. Fra queste, una è conosciuta da tutti:
“Non si possono raddrizzare le gambe ai cani”. Intendeva dire che, presa una
strada sbagliata, non c’è modo di farla sembrare giusta.
Nel 1990
il giudice veneziano Felice Casson
invitò il Presidente della Repubblica
Francesco Cossiga a testimoniare nel
processo Gladio. Cossiga rifiutò e
Casson rinunciò. Il giudice aveva alcune alternative.
Poteva sollevare conflitto di attribuzioni
avanti alla Corte Costituzionale; poteva ordinare formalmente a Cossiga di
indicare una data in cui fosse possibile sentirlo presso il Quirinale; e
perfino ordinarne l’accompagnamento coattivo
(sempre presso il Quirinale). La legge, insomma, obbligava il Presidente della Repubblica a testimoniare; ma il giudice decise di non iniziare una
guerra che, probabilmente, temeva di non poter vincere. Il potere della
forza ebbe la meglio sul potere della legge.
La stessa cosa è successa quando Napolitano ha preteso la creazione di un nuovo codice di procedura penale, costruito apposta per lui dalla Corte Costituzionale, per evitare che vi fosse il pericolo che taluno (giudici, avvocati, cancellieri, poliziotti), infrangendo la legge, rendesse noto il contenuto delle sue imprudenti telefonate con l’indagato/imputato Mancino (processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia). E adesso aspetto con ansia (e solidarietà per i miei ex colleghi) quello che succederà se Napolitano, citato come testimone avanti alla Corte di Assise di Palermo (mediante audizione presso il Quirinale), si rifiuterà di deporre.
Il rischio c’è perché, dopo un tira e molla
francamente poco dignitoso, affidato a volenterosi portavoce ufficiosi,
sembrava che il Presidente avesse deciso di deporre. Le sue resistenze rendono
legittima la supposizione che questa disponibilità derivasse più da una
(corretta) valutazione delle conseguenze negative del rifiuto sul piano
politico e della pubblica opinione che da un istituzionale rispetto delle norme
di legge.
Ora però Napolitano si trova in una
situazione che – pare – non gli piace per nulla. Totò Riina, imputato nel
processo in questione, ha maliziosamente fatto sapere che intende
presenziare all’udienza in cui il Presidente sarà sentito in video conferenza.
È stato quasi sempre presente, è un suo diritto esserlo; avrebbe anche potuto
non dire nulla e attendere il giorno dell’udienza per presentarsi in aula
“frisco come un quarto di pollo”, secondo la fantastica prosa di Camilleri.
Invece ha anticipato le sue intenzioni. Il che significa che i suoi avvocati
parteciperanno all’udienza e, sempre come prevede la legge, avranno il diritto
di interrogare il Capo dello Stato. Elementi concreti non ce ne sono; ma, se
tanto mi dà tanto, che Napolitano sopporti che i legali di Riina gli pongano
domande pare difficile. Da qui la possibilità che ricalchi le orme del suo poco illustre predecessore e si rifiuti di
deporre con la ben nota motivazione del “io so’ io e voi …”.
Gli spazi a sua disposizione per evitare un
simile arrogante affronto alle istituzioni repubblicane (non gli piacerà, ma la
Corte di Assise di Palermo è tra queste) sono in effetti inesistenti. In
particolare Napolitano non può
pretendere che Riina non sia
presente in udienza, (seguendo la deposizione in video conferenza) né che i
suoi avvocati omettano di fargli domande. L’imputato ha diritto di essere
presente al suo processo (art. 484 e 420 bis codice di procedura) e se, essendo
detenuto, vuole presenziare e non lo portano in aula, si verifica una nullità
assoluta (art. 178): processo da rifare.
Ed è qui che torna a proposito Antolisei.
In un Paese come il nostro, l’esercizio
illegale del potere ha successo. Però, proprio come un cane, ha le gambe
storte; fuor di metafora, è ingiusto.
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