Paragrafo
terzo: ancora sul tuo pedagogo
Vorrei aggiungere ancora qualcosa a ciò che
ti ho detto nell’altro paragrafo intitolato «Come devi immaginarmi».
Sul sesso ci soffermeremo a lungo, sarà uno
dei più importanti argomenti del nostro discorso, e non perderò certo occasione
di dirti, in proposito, delle verità, sia pure semplici che tuttavia scandalizzeranno
molto, al solito, i lettori italiani, sempre così pronti a togliere il saluto e
a voltare le spalle al reprobo.
Ebbene: in tal senso io sono come un negro
in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante.
Sono, cioè, un «tollerato».
La tolleranza, sappilo, è solo e sempre
puramente nominale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale. E
questo perché una «tolleranza reale»
sarebbe una contraddizione in termini. Il fatto che si «tolleri» qualcuno è lo
stesso che si « condanni». La tolleranza è anzi una forma di condanna più
raffinata. Infatti al «tollerato» - mettiamo al negro che abbiamo preso ad
esempio – si dice di far quello che vuole, che egli ha il pieno diritto di
seguire la
propria natura, che il suo appartenere a una minoranza non significa
affatto inferiorità eccetera eccetera. Ma la sua «diversità» - o meglio la sua «colpa di essere diverso» -
resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerarla, sia davanti a chi
abbia deciso di condannarla. Nessuna maggioranza potrà mai abolire dalla
propria coscienza il sentimento della «diversità» delle minoranze. L’avrà
sempre, eternamente, fatalmente presente. Quindi – certo – il negro potrà
essere negro, cioè potrà vivere liberamente la propria diversità, anche fuori –
certo – dal «ghetto» fisico, materiale che, in tempi di repressione, gli era
stato assegnato.
Tuttavia la figura mentale del ghetto
sopravvive invincibile. Il negro sarà libero, potrà vivere nominalmente senza
ostacoli la sua diversità eccetera eccetera, ma egli resterà sempre dentro un
«ghetto mentale», e guai se uscirà da lì.
Egli può uscire da lì solo a patto di
adottare l’angolo visuale e la mentalità di chi vive fuori dal ghetto, cioè
della maggioranza.
Nessun suo sentimento, nessun suo gesto,
nessuna sua parola può essere «tinta» dall’esperienza particolare che viene
vissuta da chi è rinchiuso idealmente entro i limiti assegnati a una minoranza
(il ghetto mentale). Egli
deve rinnegare tutto se stesso, e fingere
che alle sue spalle l’esperienza sia un’esperienza normale, cioè maggioritaria.
Poiché siamo partiti dal nostro rapporto
pedagogico (cioè, in particolare, da «ciò che sono io per te»), esemplificherò
quanto ti ho detto un po’ aforisticamente, attraverso un caso concreto che mi
riguarda.
In queste ultime settimane ho avuto modo di
pronunciarmi pubblicamente su due argomenti: sull’aborto, e
sull’irresponsabilità politica degli uomini al potere.
Chi è a favore dell’aborto? Nessuno,
evidentemente. Bisognerebbe essere pazzi per essere a favore dell’aborto. Il
problema non è di essere a favore o contro l’aborto, ma a favore o contro la
sua legalizzazione. Ebbene io mi sono pronunciato contro l’aborto, e a favore
della sua legalizzazione. Naturalmente, essendo contro l’aborto, non posso
essere per una legalizzazione indiscriminata, totale, fanatica, retorica.
Quasi che legalizzare l’aborto fosse una
vittoria allegra e rappacificante. Sono per una legalizzazione prudente e
dolorosa. Cioè, in termini di pratica politica, condivido, stavolta, piuttosto
la posizione dei comunisti che quella dei radicali.
Perché io sento con particolare angoscia la
colpevolezza dell’aborto? L’ho detto anche chiaramente. Perché l’aborto è un
problema dell’enorme maggioranza, che considera la sua causa, il coito, in modo
così ontologico, da renderlo meccanico, banale, irrilevante per eccesso di
naturalezza. In ciò c’è qualcosa che oscuramente mi offende. Mi mette davanti a
una realtà terrorizzante (io sono nato e vissuto in un mondo repressivo,
clerico-fascista). Tutto ciò ha dato al mio discorso sull’aborto una certa
«tinta»: «tinta» che proviene da una mia esperienza particolare e diversa della
vita, e della vita sessuale. Come cani rabbiosi, tutti si sono gettati su di me
non a causa di quello che dicevo (che naturalmente era del tutto ragionevole)
ma a causa di quella «tinta». Cani rabbiosi, stupidi, ciechi. Tanto più
rabbiosi, stupidi, ciechi, quanto più (era evidente) io chiedevo loro
solidarietà e la loro comprensione. Perché non parlo di fascisti. Parlo di
«illuminati», di «progressisti». Parlo di persone «tolleranti». Dunque, ecco
provato quanto ti dicevo: fin che il «diverso» vive la sua «diversità» in
silenzio, chiuso nel ghetto mentale che gli viene assegnato, tutto va bene: e
tutti si sentono gratificati della tolleranza che gli concedono. Ma se appena
egli dice una parola sulla propria esperienza di «diverso», oppure,
semplicemente osa pronunciare delle parole «tinte» dal sentimento della sua
esperienza di «diverso» si scatena il linciaggio, come nei più tenebrosi tempi
clerico-fascisti. Lo scherno più volgare, il lazzo più goliardico,
l’incomprensione più feroce lo gettano nella degradazioe e nella vergogna.
Ebbene, caro Gennariello, alla gazzarra
nata sulla questione dell’aborto ha fatto riscontro il più assoluto silenzio
sulla questione degli uomini di potere democristiani. E, in proposito (sia ben
chiaro), non ho fatto un discorso di comune amministrazione, cioè di
costume…Ma, su questo punto, parleremo nel prossimo paragrafo, il cui tema sarà
il linguaggio.
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