da: Famiglia Cristiana
«La
mia Siria, una tragedia ignorata»
Il
vescovo emerito di Aleppo, mons. Bortolaso: "La guerra civile tra lealisti
e ribelli può avere conseguenza devastanti in tutto il Medio Oriente. E nessuno
fa nulla per fermarla"
di Romina
Gobbo
«In Libano la tensione è alle stelle. Lo
scontro mortale in corso in Siria tra l'ala sunnita, maggioritaria, e quella
sciita-alauita, minoritaria ma al potere, ancora una volta ha ripercussioni sul
Paese confinante, dove anche recentemente si sono verificati scontri armati tra
fondamentalisti sunniti e forze filo-siriane. Nel Paese dei cedri – dove anche
la popolazione cristiana è divisa tra chi sta con Hezbollah e chi con i sunniti
– ora la situazione è aggravata dalla mancanza di un governo, dopo le
dimissioni, il 22 marzo scorso, del primo ministro Najib Miqati (che però
continuerà a guidare l'esecutivo con un ruolo di interim fino alla formazione
del nuovo, compito che è stato affidato al deputato sunnita Tammam Salam, ndr)».
A dirlo è mons. Armando Bortolaso, salesiano, vescovo emerito di Aleppo, in
questi giorni in terra vicentina, a Villaganzerla, suo paese natale, dov'è
tornato
per festeggiare con parenti e amici i sessant'anni di sacerdozio. In
Medio Oriente dal '48, mons. Bortolaso è stato ordinato sacerdote il 5 luglio
1953, a Gerusalemme, nella basilica del Santo Sepolcro. «La Siria», continua il
vescovo, «è divenuta un vulcano, un magma sotterraneo, molto pericoloso, che si
insinua tra Occidente e Oriente. Può succedere di tutto, perché gli interessi
sono enormi». Il timore è di un contagio dell'intera area. Timore espresso
recentemente anche dall'Alto Rappresentante della politica estera dell'Ue,
Catherine Ashton, che ha lanciato a tutti un appello alla calma e alla
cooperazione in uno spirito di dialogo.
Dialogo che mons. Bortolaso ha perseguito negli anni trascorsi ad Aleppo. «Ho
sempre pensato che chi indirizza la propria vita all'unità, ha centrato il
cuore di Gesù. Così, mi dicevo: "Tu non sei il vescovo dei latini
soltanto, tu sei il vescovo di Gesù, e Gesù qui in Siria ha 22 milioni di
anime". Ho cercato di vivere l'unità con i miei sacerdoti, con i religiosi,
con i fedeli, con i vescovi e i cristiani delle altre Chiese, ortodosse e
protestanti, con i musulmani». Oggi mons. Bortolaso vive in Libano, nella Casa
salesiana di El Houssoun, piccolo villaggio di montagna vicino all'antica città
di Biblos. Ma il cuore resta in Siria, dove ha vissuto per 22 anni, di cui
dieci da vescovo. Ed è per questo che la guerra civile che lì si consuma tra
lealisti e ribelli è per lui motivo di grande sofferenza.
«La Siria è la mia seconda patria», afferma. «Sapere che la "mia"
gente è straziata dal dolore, vedere Aleppo, terra benedetta, ridotta a un
cumulo di macerie, e le chiese, le care antiche chiese cristiane distrutte, mi
fa male al cuore. Anche perché è una tragedia che si svolge nell'indifferenza
generale». Sa bene mons. Bortolaso che una Siria destabilizzata fa il gioco di
molti, dagli Stati Uniti all'Iran. E, pur essendo un uomo pacato, assieme agli
altri vescovi dei diversi Riti, non si stanca di ricordare alla comunità
internazionale che è tempo di lavorare per la pace. Un obiettivo che si può
raggiungere solo con il dialogo. «Purtroppo, oggi è difficile anche questo,
perché la situazione è talmente degenerata che le "amicizie
interreligiose" sono guardate con sospetto». Che notizie ha della
popolazione? «La gente è terrorizzata. La sera nessuno si arrischia ad uscire.
E le donne, anche se cristiane, quando escono, indossano il velo».
Sulla possibilità di ritrovare segni di speranza Bortolaso risponde: «Gli amici
che mi scrivono da Damasco, mi dicono che i nostri cristiani, anche se
"sotto tortura", anche se vengono sequestrati, non mollano, anzi,
questa situazione di prostrazione li porta a essere cristiani ancora più veri,
pronti a testimoniare e a vivere il vangelo. Quando c'è la persecuzione, c'è un
risveglio della coscienza e si riscopre il rapporto con Dio. Non dimentichiamo
che la Siria è terra sacra alla memoria di san Paolo, che si convertì a Damasco
e iniziò il suo ministero ad Antiochia, facendone la base dei suoi viaggi
apostolici. Proprio lì i seguaci di Gesù furono chiamati per la prima volta
"cristiani"». Perché in Medio Oriente basta una
"scaramuccia" perché divampi un incendio? «Quest'area paga il
conflitto mai risolto tra israeliani e palestinesi. Ero a Gerusalemme nel '49,
l'anno dopo la creazione di Israele, erano anni incandescenti, ma i rapporti di
forza sono stati chiari fin da subito. Chi non vuole la pace, ha sempre
proclamato la teoria dell'impossibilità di convivenza tra arabi cristiani e
palestinesi ed ebrei. Ma è un'affermazione smentita dalla storia, perché questa
convivenza pacifica tra religioni diverse c'è stata per 1.400 anni. Urge, però,
il riconoscimento della Palestina come Stato. Io credo fermamente che l'unica
soluzione alla dissoluzione perpetrata del Medio Oriente, sia quella di
risolvere il problema palestinese. Ma per farlo, si deve accettare onestamente
il principio della convivenza pacifica dei due Stati».
Intanto, in Medio Oriente il numero dei cristiani si assottiglia sempre di più.
«La pressione per la diaspora dei cristiani è evidente», risponde il
monsignore, «ma non sono i musulmani a volere questo, anzi, loro ritengono la
perdita dei cristiani, con cui sentono di condividere molti valori, un
impoverimento per i loro Paesi. Ancora una volta, sono le interferenze esterne
a condurre il gioco. E l'Europa sta a guardare». Come si fa a resistere
sessant'anni in una terra così martoriata? «Per il religioso non è una
questione di luogo, ma di missione; bisogna esserci là dove le persone hanno
più bisogno di essere amate».
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