da: la Repubblica
Il
coraggio della solitudine
di Barbara
Spinelli
Se la sinistra di Bersani e Vendola ha
memoria della propria storia migliore, se vuole rinnovarsi ascoltando quel che
tanti cittadini desiderano, non ha davanti a sé molte vie ma una, nell'elezione
del nuovo capo dello Stato. Non può che scegliere un Presidente che nell'ultimo
ventennio abbia avversato l'anomalia berlusconiana, e pensato più di altri
l'intreccio fra crisi economica, crisi della democrazia, crisi della legalità,
crisi dell'informazione, crisi dell'Europa.
Non può che meditare sul vincitore finale delle Quirinarie di
Grillo: Milena Gabanelli è emblema dell'indipendenza giornalistica, della lotta
alla corruzione, e di tale indipendenza e lotta la nostra democrazia ha bisogno
come dell'aria, per tornare a respirare. Non può che votare uno dei tre nomi
politicamente forti emersi dal dibattito nel Movimento 5 Stelle: Stefano
Rodotà, o Romano Prodi, o Gustavo Zagrebelsky. Non li ha inventati Grillo
questi nomi, non sono suoi: sono figli - soprattutto i primi due - della
sinistra. Non è faziosità difenderli.
In passato cosa ha contato che Einaudi, Pertini, e poi Scalfaro, Napolitano,
fossero stati "di parte" prima dell'elezione? Solo la persona pesa,
non l'astuto reticolo di accordi che l'intronizza. Eletto al primo turno,
Cossiga fu pessimo Presidente. Il timore d'apparire partigiano rischia di immobilizzare
il Pd, accentuando un attaccamento a larghe e sotterranee intese che l'hanno
consumato fino a polverizzarlo. La ricerca di brevi vantaggi, la spartizione di
cariche e potere: ecco cosa regala il connubio con una destra numericamente
pari a Grillo, ma ben più potente e ricattatoria di lui. I tre contendenti
citati sono europeisti, hanno come bussola la Costituzione, sono stimati fuori
Italia, e non partecipano al coro conformista che bolla 5 Stelle come
antipolitica. Uno di essi, Zagrebelsky, ha detto: "Antipolitica è parola
violenta e disonesta". Altri nomi sono possibili, purché l'identikit sia
lo stesso.
L'accordo fra sinistra e 5 Stelle sul nome del Presidente è infecondo solo se
teniamo il naso schiacciato sull'oggi, anzi sull'ieri (le larghe intese erano
solo con la destra). Se guardiamo lontano, se vediamo lo sfaldarsi del Pd non
come una sciagura ma come un'opportunità, l'accordo con Cinque Stelle può
essere reinvenzione democratica. Tra le righe è quel che dice Fabrizio Barca,
nel programma presentato il 12 aprile in
favore di un Pd disfatto e rifatto a nuovo.
I militanti di 5 Stelle preconizzano ad esempio l'immissione nella democrazia
rappresentativa di esperienze sempre più estese di democrazia deliberativa,
diretta. Non siamo lontani dallo sperimentalismo democratico che secondo Barca
deve innervare il futuro Pd, e abituarlo ad ascoltare quel che la cittadinanza
vuole poter discutere e decidere fra un voto e l'altro. I due termini sono
diversi ma non la sostanza, che rimanda tra l'altro all'Azione Popolare
teorizzata da Salvatore Settis. Ambedue puntano il dito sull'odierna anchilosi
dei partiti. Ambedue pensano la crisi come svolta positiva, e
nell'impoverimento della nostra economia scorgono una realtà non occultabile ma
nemmeno fatale, se altri modelli di sviluppo saranno sperimentati in Italia e
in Europa.
L'imminente elezione del Presidente è una di queste occasioni, da cogliere
allungando la vista ed evitando di scoraggiarsi in anticipo. L'accordo con
Grillo è difficile, dicono: ma non è del tutto escluso che sia possibile, se il
Pd considererà come proprio uno dei nomi usciti dalle Quirinarie, e accetterà
all'inizio di restare in minoranza. Alla quarta votazione, quando basterà la
maggioranza semplice, un nome non partitico potrebbe passare.
L'occasione è tutto, dunque. Ma ci sono due metodi per affrontarla, analizzati
da Barca: il metodo minimalista, o quello sperimentale-deliberativo. Il primo
si adagia sullo status quo: ha la forza delle abitudini ai vecchi ordini. Il
secondo tenta nuove vie, prova e riprova imparando da conflitti e errori.
Chi adotta il metodo minimalista non crede che lo Stato possa molto, per curare
la democrazia malata o attenuare la povertà sociale. Quel che gli importa, è
preservare una chiusa élite (di esperti politici, di tecnici) che prenderà
decisioni senza curarsi se funzionino, convinta com'è che i piani di austerità
daranno ineluttabilmente frutti anche se immiseriscono popoli interi.
Il candidato al Colle preferito da simili élite non deve essere popolare, non
deve nemmeno rappresentare un emblema ideale per i cittadini: deve essere
abile, e soprattutto omogeneo alle oligarchie che lo faranno re. Meno popolare
sarà, più sarà scongiurato il pericolo, temuto dai benpensanti del vecchio
ordine, del populismo. A parole, i minimalisti si augurano uno Stato leggero,
non invadente. Nei fatti, le oligarchie partitocratiche vivono in osmosi con lo
Stato e rendono quest'ultimo più che pervasivo, indifferente alla voce di chi
(localmente, nelle Azioni Popolari, nei voti online) reclama cambiamenti.
Tutt'altra l'idea degli sperimentatori, o della democrazia deliberativa: è il
metodo sfociato nel voto, da parte degli attivisti di M5S, dei candidati al
Colle. L'esperimento è difficile, ma innovativo e molto più onesto di quel che
era stato pronosticato. Non tutti i candidati vincenti erano graditi ai vertici
del Movimento: tuttavia il verdetto è stato accolto democraticamente e con
responsabilità istituzionale.
Molte cose sono state dette, nei giorni scorsi, liquidatrici delle Quirinarie e
d'una prassi deliberativa che avrebbe fatto cilecca. È la miopia di chi non intuisce
l'ovvia difficoltà dei nuovi inizi. È la miopia di chi rifiuta di istituire
subito le Commissioni parlamentari chieste dal M5S. I cittadini chiedono misure
rapide contro la crisi, ma i partiti restano sordi: prima devono sapere come
lottizzare posti e presidenze, cosa impossibile se non si sa il governo che
verrà! La verità, pochi la dicono. Interessante non è il marchingegno più o
meno fuorviante del voto in rete a due turni. Interessante è che dovendo
indicare ben 10 nomi, un movimento qualificato di fascista, o demagogico, o
populista, non sia stato in grado di trovarne neppure uno sfacciatamente
demenziale o di estrema destra.
Stupidità fanfaronesche s'incrociano spesso sul web. Ma ancor più funeste
dilagano nei non meno virtuali palazzi del potere. Le cerchie partitiche, o
tecniche, mostrano una conoscenza del pubblico interesse infinitamente meno
vigile. Sono le cerchie contro cui si scaglia Barca, quando denuncia i
"partiti di occupazione dello Stato, dove si vende e si compra di tutto:
prebende, ruoli, pensioni, appalti, concessioni, ma anche regole, visioni,
idee". Berlinguer usò parole quasi eguali, quando ruppe col compromesso
storico e denunciò la degenerazione dei partiti, Pci compreso ("I partiti
hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal
governo", disse a Eugenio Scalfari su Repubblica, il 28-7-81).
Perfino sull'articolo 67 della Costituzione, giudicato comunemente intoccabile
ma criticato da Grillo, Barca sembra dubbioso: vero è che i costituenti
respinsero il "vincolo di mandato" dei parlamentari, ma non
all'unanimità. Il comunista Ruggero Grieco difendeva la libera coscienza dei
deputati, ma sosteneva che l'esclusione di ogni vincolo "favorisce il
sorgere del malcostume politico". Il ventennio berlusconiano non gli ha
dato torto.
Non sappiamo ancora se le strade di Barca e di Grillo si incontreranno. Se
dall'eventuale incontro la democrazia uscirà più forte. Se il M5S intirizzirà,
a forza di rifiutare alleanze. Resta che l'Italia ha bisogno di sperimentatori,
non di minimalisti. Che solo i primi sono in grado di guardare in faccia la
crisi, e di mutare anche l'Europa. Di ripensare l'austerità come aveva provato
Berlinguer nel 1977, quando il capitalismo aveva appena cominciato a vacillare.
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