da: La Stampa
Non sappiamo se Enrico Letta riuscirà a
formare un governo, né se il nuovo governo sarà messo in condizione di
governare. Ma facciamo per una volta gli ottimisti, e immaginiamo che tutto
vada per il meglio, e che il futuro governo non sia paralizzato dalle forze
politiche che lo sostengono.
Che cosa sarebbe ragionevole aspettarsi dal
nuovo governo?
Credo che la maggioranza degli italiani
risponderebbe: che affronti l’emergenza economico-sociale, a partire dal dramma
occupazionale. Dopo tutto, è per questo che ci stiamo negando il lusso di
tornare immediatamente al voto.
Anch’io la vedo così, e non da oggi. E
tuttavia penso che, in questo preciso momento, ci siano anche due altre
priorità, non strettamente economiche ma vitali per il futuro dell’Italia. La
prima è ovvia: il nuovo governo, se vuole partire con il piede giusto, deve
abolire il finanziamento pubblico dei partiti, e deve farlo senza se e senza ma
(o meglio, con un unico «ma»: la completa defiscalizzazione delle donazioni
private). So benissimo che c’è anche un po’ di semplicismo e di demagogia in
questa richiesta, ma ci sono anche due argomenti fortissimi a suo favore.
Primo: l’abolizione del finanziamento pubblico
è già stata decisa venti anni fa
con un referendum popolare, dunque si tratta solo di rispettarne l’esito.
Secondo: comunque sia, i partiti hanno dimostrato ampiamente di non saper usare
in modo corretto il fiume di denaro che, aggirando il risultato referendario,
si sono continuati ad autoattribuire per due decenni. Detto in altri termini:
si possono nutrire le opinioni più diverse sulla giustezza del finanziamento
pubblico considerato in astratto, ma arrivati a questo punto – dopo un
referendum disatteso e venti anni di cattivo uso del denaro pubblico – non c’è
più alcuna scelta.
C’è però anche un secondo tema che
meriterebbe di essere affrontato subito, in parallelo rispetto ai temi
economico-sociali: il cambiamento delle regole del gioco, a partire dalla legge
elettorale. Questo tema non è solo importante in sé (perché le regole attuali
non funzionano), è anche assolutamente urgente. E lo è per una ragione
elementare: questo è il momento migliore per cambiare le regole, anzi è l’unico
momento per farlo con qualche speranza di riuscita. Passato questo momento,
potremmo non farcela più.
Perché?
Perché adesso, solo adesso e per poco tempo
ancora, le forze politiche si trovano relativamente prossime a quella
condizione ideale che, quasi mezzo secolo fa, nella sua «Teoria della
giustizia», John Rawls descrisse con l’espressione «velo d’ignoranza». In che
senso l’ignoranza può aiutare a prendere decisioni giuste? Nel senso che, per
scegliere una regola in modo disinteressato, e quindi equo, è bene che tu non
sappia in anticipo se, per la posizione che potrai trovarti ad occupare domani,
quella regola ti avvantaggerà o ti danneggerà. Ignorare le convenienze future
aiuta a fissare le regole del gioco nel modo più equo e bilanciato possibile,
proprio perché ognuno tenderà a proteggersi dal rischio di un sistema di regole
che, a posteriori, potrebbe risultare dannoso o catastrofico per lui stesso.
È questa, oggi, la situazione dei partiti.
I partiti possono anche credere di sapere quali regole li avvantaggerebbero e
quali no, e proprio per questo non riuscire a trovare un accordo fra loro (è
precisamente quanto è successo durante il governo Monti). Ma, se non riescono a
lasciar perdere i calcoli egoistici neppure oggi, non ci riusciranno mai.
Perché oggi la possibilità di fare calcoli e previsioni è al minimo storico,
probabilmente ancora più giù di quanto fosse scesa nel 1992-1994, durante le
convulsioni della prima Repubblica. Oggi infatti, oltre a non sapere quando si
voterà, nemmeno si sa quali forze politiche saranno in campo alle prossime
elezioni. E non mi sto riferendo alle forze minori, che come in un
caleidoscopio cambiano da elezione ad elezione, ma alle forze maggiori, ivi
comprese quelle che siamo abituati a considerare punti fermi e stabili del
panorama politico.
Ci sarà ancora il Pd alle prossime
elezioni? O ci saranno due Pd, uno guidato da Renzi, l’altro guidato da Barca?
O addirittura ce ne saranno tre, uno fatto dalla vecchia nomenklatura, l’altro
diviso fra i «nuovi di sinistra» e i «nuovi di destra»?
Ci sarà ancora Berlusconi alla guida del
Pdl? Che faranno Monti e Casini? Si decideranno a creare un secondo
raggruppamento moderato, in concorrenza con quello berlusconiano, o
persevereranno nel tentativo di fare l’ago della bilancia?
E Grillo? Che ne sarà del movimento di
Grillo ora che la sua natura «di sinistra» (una strana sinistra, per la verità)
è risultata evidente?
Le previsioni ragionevoli oscillano fra il
5 e il 55% dei voti. Se a Grillo riuscisse la cosiddetta OPA sul Pd (siete
morti! i veri progressisti siamo noi!), il suo movimento potrebbe puntare al
30-35% dei voti, ovvero la quota che dal 1948 tocca alla sinistra in questo
paese. Difficile, perché anche l’autolesionismo del Pd ha (forse) un limite, e
prima di arrendersi D’Alema e compagni venderanno cara la pelle.
Se il governo Letta fallisse, e i partiti
maggiori rimandassero in scena il mortificante spettacolo di questi anni,
Grillo potrebbe anche puntare al 51%, naturalmente dopo essersi trasformato in
un partito di governo, con un programma e una squadra credibili. Se invece il
governo Letta dovesse avere successo, e il Pd trovasse il modo di restare sulla
scena (magari con due partiti), al movimento di Grillo potrebbe toccare un
destino non molto migliore di quello dell’Uomo Qualunque, una meteora
improvvisamente apparsa nel cielo della politica italiana e poi inabissatasi
per sempre.
Insomma, come direbbe il presidente Mao:
«grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente». No, la
situazione non è eccellente in nessun campo, ma forse per cambiare le regole
del gioco lo è davvero.
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