mercoledì 10 aprile 2013

Barbara Spinelli: “L’Europa di Kubrick”


da: la Repubblica

L'Europa di Kubrick
di Barbara Spinelli

Eyes wide shut: tale la postura dell'Europa, da quando è caduta nell'odierna crisi esistenziale. Vi è caduta con gli occhi spalancati dalla paura, dalla paralisi, ma sappiamo che se gli occhi li sbarri troppo è come se fossero chiusi.

È uno dei mali di cui soffre l'unità europea, quest'intreccio perverso tra visione e cecità: ne discendono le più convenienti mitologie, i più nefasti luoghi comuni. Tra questi vorremmo citarne uno: sempre più spesso, l'Europa è descritta come utopia, parente prossima di quei messianesimi politicio religiosi che fioriscono in tempi di guerre, di cattività, di esodo dei popoli. Il vocabolo ricorrente è sogno. I sogni hanno un nobile rango: dicono quel che tendiamo a occultare. Resta il loro legame col sonno, se non con l'ipnosi: ambedue antitetici alla veglia, all'attiva vigilanza. 

Ebbene, l'Europa unita è qualcosa di radicalmente diverso da un sogno, e ancor meno è un'utopia, un'illusione di cui dovremmo liberarci per divenire realisti; o come usa dire: più moderati, pragmatici. La crisi cominciata nel 2007
ha disvelato quel che avrebbe dovuto esser chiaro molto prima, e che era chiaro ai padri fondatori: l'esaurirsi dei classici Stati nazione. La loro sovranità assoluta, codificata nel trattato di Westphalia nel 1648, s'è tramutata in ipostasi, quando in realtà non è stata che una parentesi storica: una parentesi che escluse progetti di segno assai diverso, confederali e federali, sostenuti già ai tempi di Enrico IV in Francia e poi da Rousseau o Kant. Gli effetti sulla vita degli europei furono mortiferi: questa constatazione, fatta a occhi ben aperti, diede vita, durante l'ultima guerra mondiale, non già al "sogno", ma al progetto concreto d'unificazione europea.

Nel frattempo tale sovranità assoluta - cioè la perfetta coincidenza fra il perimetro geografico d'un Paese e quello del potere statuale da esso esercitato - è divenuta un anacronismo non solo incongruo ma inconcludente, che decompone governi e Parlamenti. I nodi più ardui da sciogliere - una finanza mondiale sgovernata, il conflitto fra monete, il clima, le guerre, la convivenza tra religioni differenti - non sono più gestibili sul solo piano nazionale. 

Tanto meno lo sono con l'emersione di nuove potenze economiche (i BRICS: Brasile, Russia, India, Cina, Sud-Africa). La loro domanda di energia, materie prime, beni alimentari, è in rapida crescita e quel che esse pretendono, oggi, è una diversa distribuzione delle risorse planetarie: inquiete per il loro rarefarsi, esigono la loro quota. Non è più tollerato che una minoranza di industrializzati perpetui tramite l'indebitamento il dominio sui mercati: è attraverso il debito infatti che i ricchi del pianeta s'accaparrano più risorse di quelle spettanti in base alla loro capacità produttiva. È il motivo per cui debiti che erano considerati solvibili non lo sono più: i BRICS non vogliono più rifinanziarli.

Il debito sovrano, in altre parole, non è più sovrano: va affrontato come incombenza mondiale, e per cominciare come compito continentale europeo. Pensare che i singoli Stati lo assolvano da soli, indebitandosi ancora di più, è non solo ingiusto mondialmente: è ridicolo e impraticabile. L'unità politica fra Europei è insomma la via più realistica, pragmatica, e la più promettente proprio dal punto di vista della sovranità: cioè dal punto di vista del monopolio della coesione civile, del bene pubblico, della forza. L'abbandono-dispersione del monopolio conduce all'irrilevanza del continente e al diktat dei più forti, mercati o Stati che siano.

I problemi da risolvere (per problemi intendo le crisi-svolte che aprono alla stasi o alla trasformazione) si manifestano dentro geografie diverse, ciascuna delle quali va governata. Non è più vero che il re è imperator nel suo regno: superiorem non recognoscens (ignaro di poteri sopra di sé), come nella formula del Medio Evo, quando l'impero era sfidato dai primi embrioni di Stati. La formula risale al XIII secolo, e nell'800-900 divenne dogma malefico. Oggi il singolo sovrano deve riconoscere autorità superiori: organi internazionali, e in Europa poteri federali e una Carta dei diritti che vincola Stati e cittadini.

Neanche la sovranità popolare è più quella sancita nell'articolo 1 della nostra Costituzione: non solo essa viene esercitata "nella forme e nei limiti della Costituzione" - dunque è divisibile - ma sempre più è scavalcata da convenzioni transnazionali (il Fiscal Compact è tra esse) che minacciano di corroderla e screditarla, se non nasce una potente sovranità popolare europea. I partiti non sono meno colpevoli degli Stati: nelle elezioni europee, è inesistente lo sforzo di vedere, oltre i propri Paesi, l'Europa e il mondo.
Questo significa che l'Unione va ripensata, oltre che rifatta: sapendo che solo lì recupereremo le sovranità perdute. Edificando un potere sovranazionale, e un Parlamento che possa controllarlo e eleggerne i rappresentanti. Le stesse Costituzioni esigeranno adattamenti alla nuova sovranità ritrovata solidalmente. Le discussioni della Corte costituzionale tedesca sono spesso dettate da chiusure nazionaliste, e tuttavia cercano di vedere e dominare mutazioni reali. È un peccato che discussioni analoghe non avvengano, con la stessa puntigliosa intensità, nelle Corti degli altri Stati dell'Unione. 

Qui giungiamo al punto cruciale: all'astratto furore imputato a chi invoca gli Stati Uniti d'Europa. Tanto più astratto e fallimentare, vista la crescente disaffezione dei popoli. Disaffezione relativa, per la verità. Non è vero che tutti i referendum europei siano stati negativi, nella storia dell'Unione: la maggior parte non lo sono stati. Quanto all'euro, solo il 2 per cento dei cittadini (l'1 in Italia) vuole abbandonarlo.

Dove sta allora, oggi, l'utopia? Sta nella perpetuazione di sovranità nazionali fittizie: tenute in semi-vita da simulacri di poteri e da cittadini disinformati (le due cose vanno insieme: più spadroneggia lo status quo, più la realtà vien nascosta ai popoli). Machiavelli descrive con occhio profetico le disavventure delle grandi mutazioni: "Debbesi considerare come non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini. Perché lo introduttore ha per nimici tutti coloro che degli ordini vecchi fanno bene; ed ha tiepidi difensori tutti quelli che degli ordini nuovi farebbero bene. La qual tepidezza nasce parte per paura degli avversarii, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità degli uomini, li quali non credono in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza. Donde nasce che qualunque volta quelli che sono inimici hanno occasione di assaltare, lo fanno partigianamente, e quelli altri difendono tiepidamente, in modo che insieme con loro si periclita".
Tepidezza, incredulità, paura: questi i sentimenti che impediscono la nascita di ordini nuovi. L'ordine vecchio è difeso con partigianeria, anche quando è manifestamente defunto. Quello nuovo con tiepidezza, anche quando è manifestamente necessario. Mi è sempre apparsa tiepida la formula di Gramsci, sull'ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. Proprio la ragione deve essere ottimista (per ottimismo non intendo fede progressista, ma la non-rassegnazione di cui parla Pessoa: "Tutto vale la pena, se l'anima non è piccola"). Ogni volta che udite parlare di Stati che si riprendono la sovranità, state sicuri: di fronte avete un illusionista che "dell'ordine vecchio fa bene": usandolo per dominare. I veri populisti, ingannatori di popoli, oggi sono loro.

Anche lo scetticismo è parola da usare cautamente: per rivalutare il suo antico significato. Il vero scettico non apre alcun credito all'apparenza, e non è pregiudizialmente avversario dell'unità europea ma si fa sottile e assai dubbioso osservatore dello Stato nazione. Non teme il nuovo ordine. Diffida del vecchio, ed è lo status quo che considera una chimera. Lì è il sonno - l'incubo - da cui vale la pena svegliarsi, se l'anima non è piccola. Il vero scettico non si contenta dell'Europa così com'è, perché ha capito che è un ibrido velenoso. Dunque quando incontriamo un antieuropeo dovremmo replicare, se vogliamo cambiare il mondo: sono io lo scettico, non tu che stai sdraiato nel falso ordine vecchio per timore del nuovo che già è cominciato. 

L'articolo riproduce parte della lezione magistrale che Barbara Spinelli tiene oggi all'Università di Padova. 

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