da: la Repubblica
Il
compromesso antistorico
di Massimo
Giannini
A pochi giorni dalla scadenza del suo
settennato, Napolitano non rinuncia ad inoculare dosi massicce di pedagogia
istituzionale in un sistema politico malato. Non si rassegna al tri-polarismo
bloccato che paralizza il Paese e al grillismo arrabbiato che occupa il
Parlamento. Invoca le "larghe intese" tra Pd e Pdl. Sbocco normale,
in qualunque altra democrazia europea. "Compromesso antistorico",
nell'Italia di oggi.
È vero. Nella teoria, un accordo programmatico pieno tra sinistra e destra
sarebbe il miglior antidoto per curare i mali del Paese, spurgarne i veleni
politici e lenirne i disagi sociali. Sarebbe la formula più proficua per
rimettere in moto l'economia e riaprire il cantiere delle riforme
costituzionali. Sarebbe l'argine più efficace per fermare l'onda a Cinque
Stelle, che si nutre degli immobilismi parlamentari e dei bizantinismi
regolamentari, si ingrossa con il disprezzo del professionismo politico inteso
come male assoluto, si alimenta della teoria semplicistica di Jackson (su cui
si è fondato lo spoil system americano) e quella rivoluzionaria di Lenin
(imperniata sull'idea che anche una semplice cuoca può fare il capo dello
Stato).
Ma, nella pratica, l'esperimento che riuscì nel 1976, quando Dc e Pci
si
accordarono per far nascere il terzo governo Andreotti, non è in alcun modo
ripetibile. Le analogie storiche non reggono. Le condizioni politiche non
esistono. È comprensibile che il presidente, per motivi di biografia politica e
personale, sia rimasto legato a quel pezzo di Storia repubblicana, che
vide un'Italia ferita a morte reagire e risollevarsi, in mezzo al piombo delle
Brigate Rosse, lo scandalo Lockheed e una crisi economica pesantissima.
È quasi inutile ricordare quello che Napolitano già sa meglio di chiunque
altro. Quel monocolore democristiano di trentasette anni fa, che si resse sulla
"non sfiducia" del partito comunista (oltre che del Psi, del Psdi,
del Pli e del Pri) nacque grazie alla riflessione e all'elaborazione politica
di due leader della statura di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer. Fu la tappa
intermedia di un percorso iniziato nel '74 con il progetto berlingueriano del
"compromesso storico", e culminato nel '78 nell'approdo moroteo del
governo di "solidarietà nazionale" (nato proprio cinque giorni prima
del tragico rapimento di Via Fani).
Bersani non è Berlinguer, e su questo non ci sono dubbi. Ma quello che conta di
più, in questo parallelismo storico improprio e improponibile, è che Berlusconi
non è Moro. Un abisso incommensurabile, umano, culturale e politico, separa lo
statista di Maglie dall'uomo di Arcore. Non c'è accostamento possibile tra la
filosofia con la quale Moro propiziò le "larghe intese" nel '76 e
l'idolatria con la quale Berlusconi propugna adesso la "grande
coalizione". Il primo aveva un progetto generale, che puntava a sciogliere
la democrazia bloccata di quella lunga stagione di Guerra Fredda unendo
temporaneamente le forze dei due grandi partiti di massa. Il secondo ha un
obiettivo individuale, che punta a barattare la formazione del governo con l'elezione
del presidente della Repubblica, la trattativa sulle riforme con il suo
salvacondotto giudiziario.
Lasciamo stare per un momento la parabola populista, cesarista e tecnicamente
rivoluzionaria del Cavaliere che ha caratterizzato il suo quasi Ventennio.
Mettiamo da parte il suo gigantesco conflitto di interessi, la sua campagna
forsennata contro i magistrati condotta dalla trincea di Palazzo Chigi, la sua
propensione a far saltare tutti i tavoli, dalla Bicamerale in poi. Torniamo al
parallelismo tra lo schema moroteo dell'epoca e il proposito berlusconiano di
oggi. Moro, con i suoi limiti e i suoi occhi chiusi sulle nefandezze del suo
segretario Freato e dei capibastone delle correnti scudocrociate, chiese al suo
partito di "non aver paura di avere coraggio", e quel coraggio lo
pagò con la vita. Oggi l'unico coraggio del Cavaliere è quello del ricatto: il
sostegno a "un governo Bersani", ma all'unica condizione che al
Quirinale vada lui stesso o, in subordine, Gianni Letta.
Non basta tutto questo a considerare Berlusconi un alleato impossibile per
chiunque? Questa consapevolezza, per gli eletti e gli elettori del
centrosinistra, non significa che con il Cavaliere non si debba nemmeno
parlare. Ha ragione Dario Franceschini, quando sostiene che l'avversario non si
sceglie, perché lo hanno già scelto gli italiani. Dunque il dialogo è
essenziale. Purché, in questo tempo sospeso delle istituzioni, serva a
individuare un metodo per far ripartire l'orologio dei poteri dello Stato,
dall'esecutivo al legislativo. E prima ancora ad eleggere un presidente della
Repubblica, dotato di tutte le prerogative e gli strumenti che la Costituzione
gli assegna.
Se serve a questo e solo a questo, e quindi non a negoziare patti scellerati di
altra natura o merci di scambio contro-natura, l'incontro tra Bersani e
Berlusconi non è solo opportuno ma è doveroso. Se invece tra i partiti c'è
ancora chi si culla nel sogno del "compromesso antistorico", farà
bene a svegliarsi in fretta, e ad acconciarsi ad un rapido ritorno alle urne.
Il governo Monti ci ha momentaneamente salvato dalla bancarotta. Ma il suo
evidente insuccesso sulle riforme di sistema sta lì a dimostrare che la
"grande coalizione" all'italiana, e alla berlusconiana, non
funzionerà mai.
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