OMD
English Electric
2013 (Bmg) | synth-pop
di
Marco Bercella
Gli Omd ci riprovano. Trascorsi
tre anni da un’acclamata reunion che, a giudicare da quanto prodotto, era
rimasta tale solo nelle intenzioni di quell’autentico signore che risponde al
nome di Andy McCluskey, la band di Liverpool affila i sintetizzatori
ripresentandosi ai blocchi di partenza con rinnovato fervore.
Ma il fervore da solo non basta, e Andy deve averlo ben compreso proprio all’indomani dell’incerta produzione di “Hystory Of Modern”, allorché avemmo occasione per rimarcare l’assenza di canzoni davvero all’altezza che, a ben vedere, sono la chance più importante per chi, come gli Omd, è titolare di un pop sound molto difficile da eludere, anche nelle aspettative di chi ascolta.
Ma il fervore da solo non basta, e Andy deve averlo ben compreso proprio all’indomani dell’incerta produzione di “Hystory Of Modern”, allorché avemmo occasione per rimarcare l’assenza di canzoni davvero all’altezza che, a ben vedere, sono la chance più importante per chi, come gli Omd, è titolare di un pop sound molto difficile da eludere, anche nelle aspettative di chi ascolta.
Lo stesso Andy non faceva mistero di anelare a un ritorno alle origini, possibilmente – aggiungiamo noi - evitando le derive ipertecnologiche che hanno fatto deragliare troppi dischi della band dal 1984 ad oggi: se con “Hystory Of Modern” l’errore è stato ineluttabilmente ripetuto, in “English Electric” l’operazione “back to the future” in parte riesce, andando a pescare gli afflati creativi da inclinazioni sbocciate ai tempi di “Architecture And Morality” e di “Dazzle Ships”, ma anche tra quelle più edulcorate di piacioneria di “Junk Culture”, almeno nei suoi episodi realmente a fuoco. Il tutto, adoperandosi meno di altre volte per dissimulare gli indizi dei numi tutelari del loro sound, quei Kraftwerk che si palesano senza troppi veli già nel primo singolo estratto “Metroland”, liberamente tratto proprio dalla kratwerkiana “Europe Endless” (Trans Europe Express, 1977). Qualcuno potrebbe storcere il naso, e lo si potrebbe anche comprendere, ma la capacità degli Omd di marchiarlo col proprio inconfondibile imprimatur è un valore aggiunto che non può essere ignorato.
Un altro aspetto che, almeno in apparenza, potrebbe non deporre a favore di questo disco, è dato dai suoi temi cardine che rimandano all’atavica nostalgia per il futuro che fu, qui scolpito in composizioni che evocano senza mezzi termini i celebri intermezzi di “Dazzle Ships”: l’iniziale “Please Remain Seated”, la paradigmatica “The Future Will Be Silent”, con tanto di loop trafugato ai Kraftwerk di “Computerwelt”, ma anche “Decimal” e “Atomic Ranch”. Tutte piuttosto gradevoli anche se, nell’era del software Siri che chiacchiera amabilmente con noi via iPhone, purtroppo svuotate dalle antiche suggestioni.
Proseguendo fra le citazioni, “Night Café”
si colloca nel solco di quelle buone canzoni da 45 giri che non sono quasi mai
mancate, nemmeno nei periodi meno luminosi (tipo “Forever Live And Die” e
“Dreaming”, per intenderci), “Our System” riporta in auge i chorus di
“Architecture And Morality”, mentre “Kissing The Machine” si abbevera alla
fonte, rimodellando in modo calligrafico un vecchio brano che McCluskey scrisse
con Karl Bartos, nel progetto dell’ex Kraftwerk denominato Elektric Music.
Discorso a parte meritano “Helen Of Troy” da un lato, figlia del cliché finché si vuole ma emotivamente degna del miglior repertorio, e il rovescio della medaglia dato da “Stay With Me” e “Dresden” (il secondo singolo, ahinoi): la prima, l’unica con Paul Humphreys alla voce, tenta di replicare la struggente e memorabile “Souvenir” ma produce l’effetto di una cover poco riuscita di “I Like Chopin” (ricordate Gazebo?), mentre la seconda, col suo piglio saltellante da zecchino d’oro, sembra un outtake di “Liberator”, non certo fra i dischi più riusciti della band.
A risollevare le sorti, riportandole su buoni standard, ci pensa il pop ambient “The Final Song” con il sample di “Lonely Night”- brano del 1959 interpretato dalla jazz singer Abbey Lincoln - a disegnare un originale contrasto fra mondi in apparenza lontani. Anche se i quesiti sulla sua effettiva utilità sono destinati a rimanere in sospeso, e incertezze a parte, “English Electric” è un disco sincero, alla luce del sole. Una partita giocata a carte scoperte, con il sorriso sulle labbra e con il cuore colmo di malcelata nostalgia.
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