da: Il Sole 24 Ore
Ravello
e Salvatores: che bel cinema italiano
di Boris
Sollazzo
La bella sorpresa è che viene dal nostro
paese il meglio dell'offerta artistica di questa settimana.
Un gioiello Tutti contro tutti di Rolando
Ravello. Esordio alla regia di un attore tanto bravo quanto sottovalutato,
è l'adattamento su grande schermo di una piéce teatrale, Agostino, che commosse
e divertì moltissimi sul palcoscenico in cui lui faceva tutti i ruoli (una
quindicina). Spettacolo e film sono stati scritti, entrambi, da lui e Max
Bruno, e sono un ritratto tra commedia e dramma sociale della precarietà totale
di questo presente. Agostino (Ravello stesso), sua moglie (Kasia Smutniak,
sempre più brava), il nonno (Stefano Altieri), il cognato (il solito Marco
Giallini) e tutto il resto della famiglia vanno alla Prima Comunione del figlio
piccolo del protagonista. Un giorno di stress e di gioia di una famiglia
"normale", fotografato in tanti dettagli di pochi secondi, ben
inquadrati da un inizio che monta insieme primi piani di mani, sguardi, visi,
un collo, una tazza. E questo si dovrà fare durante tutto il film: godersi
l'insieme e spiare i dettagli. Ravello si dimostra un regista umile nel
mettersi al servizio della storia di una famiglia che per poche ore di assenza
si ritrova la propria casa occupata (anche perché chi gliel'affittava in nero
l'aveva occupata a sua volta). E decide di non soccombere all'ingiustizia, ma
di combattere. Occupando il pianerottolo, assediando la propria casa.
Grazie a un cast
perfetto, a una visione semplice e potente della realtà, a una scrittura agile.
Tutti contro tutti è un film popolare, civile, sentimentale e raffinato, in cui
a tratti si rivede quello Scola che ha diretto questo cineasta alla sua opera
prima in ben quattro film. E quel finale in cui si cita persino Pellizza da
Volpedo – già citato pure in una scena precedente – entusiasma per
quell'ingenuità necessaria a chi ha il coraggio incosciente di entrare nel
cuore degli spettatori, senza l'aria o l'ossessione di pensarsi autore.
Tutt'altro genere il nuovo Gabriele Salvatores di Educazione Siberiana. Per la prima
volta non è tra i produttori di un suo film, per la prima volta ha un grande
budget (9 milioni di euro) e un cast internazionale, per la prima volta gira al
freddo glaciale di una Lituania 30 gradi sotto zero. E ci sono tante altre
prime volte in questo racconto di inquietudine giovanile e di amicizia
inossidabile, in questo sguardo sulla linea d'ombra che tutti ci troviamo ad
affrontare, crescendo, nella vita. Ma non durante il crollo di un impero,
quello sovietico, e non nella comunità criminale più povera della
Transinistria, quella raccontata dal best seller di Nicolai Lilin (ed. Einaudi)
da cui il film è tratto.
Salvatores unisce la sua capacità di fare
un cinema grande e ambizioso con un'anima pop e una sensibilità gentile e
tenera (vedi il personaggio di Eleanor Tomlinson) che gli permette di
trascinarti dentro un'avventura di vita vissuta di corsa, al massimo e molto
pericolosamente. E pazienza se quel bel libro viene sfrondato di alcuni dei
suoi lati più spigolosi, dall'omofobia alla violenza più ostica, merito e anche
colpa di Rulli e Petraglia, sempre troppo attaccati ai modelli de La meglio
gioventù e di Romanzo criminale, qui disinnescati a sufficienza dal regista. Il
racconto coinvolge, prende, e con esso anche la filosofia di un gruppo di
uomini che parlano con i loro corpi. Tatuandosi la loro storia, difendendosi
con e dai coltelli, disprezzando i soldi e l'accumulare ricchezze in favore di
un'etica disonesta ma a suo modo morale (contro potenti e prepotenti, divise e
banchieri), rappresentata da nonno Kuzya, un John Malkovich ieratico e
autorevole. Il regista mette a segno il solito colpo da maestro indovinando i
protagonisti Kolyma e Gagarin (Arnas Fedaravicius e soprattutto Vilius
Tumalavicius), sceglie uno stile da fiaba bastarda che ha in sé la forza
dell'amicizia e d'amore, con un finale di quelli che non si fanno più, di
quelli che ti fanno emozionare.
Educazione siberiana è la dimostrazione che
possiamo ancora pensare in grande, che con cineasti così c'è di che divertirsi.
E sarà impossibile per voi guardare l'orologio fino ai titoli di coda.
Un amore invincibile, un sentimento
esagerato è anche al centro di Upside Down, fantascienza e tanto cuore, targati
Juan Diego Solanas. Un film scombinato e sottosopra nel vero senso della
parola, perché quest'opera è ambientata in due mondi capovolti, uno di
sfruttati e un altro di sfruttatori. Due società che dividono i Romeo e
Giulietta sci-fi di questo racconto, Kirsten Dunst e Jim Sturgess. Sarà
sgrammaticato e un po' caotico Upside Down, a volte sbrigativo e altre troppo
lento, ma i simboli, l'estetica e il trasporto dei sensi e del sentimento di
molte scene vanno oltre ogni possibile errore cinematografico. Ve lo godrete,
però, solo se vi lascerete andare.
Un bel fine settimana, insomma, che offusca
il sequel spin-off in 3D Non aprite quella porta (trascurabile, nonostante
Alexandra Daddario) o il velleitario Non ci indurre in tentazione, un bianco e
nero con troppe pretese e qualche intuizione buona ma che non fanno un film.
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