Spring
Breakers – Una vacanza da sballo di Harmony Korine
di Giuseppe
Gangi
Ostentazione, provocazione, eiaculazione.
Sono i tratti fondamentali della partenza metanfetaminica dell’opera numero
cinque di Harmony Korine. Il primo montage, dopo i titoli di testa tamarramente
floreali, dispiega una carrellata di forme femminili in esposizione: seni e
sederi sodi malamente contenuti in succinti bikini, e ombelichi, espressioni
ammiccanti, muscoli pompati, birra e superalcolici a fiumi. Un altro giro e le
forme prorompenti esplodono davanti all'occhio della macchina da presa, i
capezzoli turgidi, i fisici sensuali oliati, bagnati da acqua salmastra e
alcool, che si intrattengono nei giochi alcolici che piacciono tanto ai giovani
americani, a metà tra il tentativo di aumentare gli effetti della sbornia e la
pesante provocazione a sfondo sessuale - la birra schizza dalle lattine e le ragazze
bevono come se fosse la pantomima di un set porno. Sono solo pochi minuti ma
c’è già tutto il senso di eccesso, la voglia di vivere in un party esclusivo e
senza fine.
Questa fiera della carne è l'immagine
stereotipica della "festa di primavera" (spring break), dieci giorni
di pausa dalle lezioni dove gli studenti universitari possono andare a
divertirsi sulle spiagge più ambite, come quelle della Florida. Le quattro
protagoniste, compagne di college, sognano da tempo una vacanza del genere per
poter staccare la spina e darsi solo ai bagordi che devono nascondere o
reprimere: Brit, Candy e Cotty passano da un festino a un altro, bevono e si
fanno di crack, mentre Faith cela se stessa dietro una facciata da brava
ragazza, associandosi ai gruppi di giovani cattolici.
Le ragazze pur non avendo risparmiato
abbastanza soldi, non si arrendendono all’idea di rimanere un'altra volta a
casa e scelgono di alzare la posta, di rischiare per ottenere il massimo: di
fare una rapina. La sequenza potrà sembrare tanto inverosimile quanto la
realizzazione è eccitante: la rapina al fast-food è girata in un pianosequenza
dove la camera di Korine carrella intorno al locale e, insieme alla
ragazza-autista, seguiamo l'escalation delle riot-girl. Se non ci sono, i soldi
devono essere ottenuti nella maniera più facile, facile come giocare a un
videogame, rapido e indolore come un film di Hollywood. E la festa può
cominciare.
La prima sezione di "Spring
Breakers" si ricongiunge finalmente all'incipit descritto all’inizio di
questa disamina: il modo di operare di Korine si richiama scopertamente a Godard (il cui amore è, a quanto pare,
ricambiato) e, non a caso, l’oggetto filmico più vicino visto a Venezia 69 è il
malickiano "To the Wonder". Il montaggio gioca con
preterizioni ed ellissi improvvise, è umorale e imprevedibile come le ragazze
protagoniste e segue la deriva delle attrazioni eisensteniane.
L'antinarrazione imposta dal trentanovenne americano sgretola qualsiasi
appiglio per lo spettatore impreparato a un bombardamento audiovisivo di tale
portata, così potente che è costretto a rallentare, a doversi incanalare tra i
ranghi del gangster movie. Che il cineasta californiano non avesse paura di
trasgredire i limiti del buon senso e del buon gusto lo si sapeva già dopo le
sue prime opere ("Gummo" e il dogmatico "Julien
Donkey-boy"), ma con quest'ultima fatica conferma di essere tornato al suo
stile corrosivo e graffiante, dopo la semplice malinconia di "Mister
Lonely" (2007). Questo languore malinconico è il sentimento che permea il
film ed è attraverso l'ambigua nostalgia per questa generazione bruciata che
Korine fa di "Spring Breakers" una ballata nichilista e senza
speranza. La scrittura arrischiata che non scende a compromessi si riflette
nella fusione di forme differenti, nel modo in cui ogni aspetto, sia degli
eventi che dei personaggi, venga raccontato e commentato attraverso le immagini
senza alcuna autocensura. La fine dei giochi è premesso da un digitale in bassa
definizione che scioglie le forme perfette dei gaudenti "breakers"
per poi essere confermato narrativamente dal blitz della polizia che manda in
galera tutti i giovan festaioli. Qui esce dall’ombra Alien (un istrionico James
Franco, marcissimo, con tanto di denti placcati in oro), gangsta-rapper che,
mentre aspetta di sfondare come cantante, ha provato tutti i lavori illegali:
fa il trafficante di stupefacenti e vive il suo sogno. "Look at my sheeet!
This is fuckin’ American dream" esclama saltando sul letto e mostrando
alle sue amiche "tutta la sua roba", cioè vestiario, macchina e villa
degne di un grande boss, soldi e armi a non finire. Ecco che l’escapismo
della prima parte si trasforma in inquietante metafora sui risvolti di una
società malata alla radice, senza morale, la cui ingenuità si è modificata in
rapace avidità. Il sogno americano non è nemmeno più il
"gangsterismo" visto come nucleo sovversivo rispetto alla società (si
pensi a quello della Grande Depresione) o a un apparato anti-Stato come Cosa
Nostra, bensì quale spensierato e infinito "spring break" dove si può
ottenere tutto senza sforzi né patemi: e il mantra delle ragazze capitanate da
Alien non può che essere "Spring break, spring break, spring break
forever!".
Insieme al montaggio, l’altra potente arma
nella composizione audiovisiva è il sonoro e la soundtrack: sulla prima pista
si stagliano le voci fuori campo delle protagoniste che si raccontano,
annunciano azioni, denunciano sensazioni personali e mistificano se stesse[1].
La colonna sonora costruita dal dj Skrillex e da Cliff Martinez (per chi non la
ricordasse, riascoltatevi la OST di "Drive") ha una vetta di totale
compenetrazione nella scena in cui Alien suona al piano "Everytime" di Britney Spears, sullo
sfondo di un tramonto da cartoline in riva al mare; un videoclip vero e proprio
che distrugge i cliché di quella che per Korine è la Britney Spears-generation,[2]perché
le patinate immagini montate analogicamente col brano cantato non hanno niente
di stucchevole o di mieloso, sono rapine ai danni di altri giovani in vacanza,
dove le ragazze in bikini coprono il proprio volto con un passamontagna rosa
shocking. Il costumino da Barbie è diventato una divisa, trasformato in uno status
esattamente come l'automobile da corsa, le pistole, i panetti di cocaina:
feticci dell'America oggi.
Arrivato alla Mostra del cinema di Venezia
dopo alcune clip che facevano capire che la maggiore attrazione di "Spring
Breakers" fosse l’esposizione delle curve dell’interessante cast femminile
(e anche causa dell’orario preserale è stata pure la proiezione dove il numero
dei rimasti fuori è stato considerevole, tra cui il sottoscritto), ha causato
una varietà di reazioni che possiamo riassumere nella forbice "cagata
pazzesca" e "capolavoro". A un film così complesso ed estremo si
fa la fila per resistergli e rigettarlo. Al contrario, per noi resta una delle
visioni più viscerali ed esplosive di questa Mostra del Cinema di Venezia: un
assalto frontale all’immaginario buonista dei giovani americani che vogliono
costruirsi un futuro nella società contemporanea[3].
Tra colori fluo, luci inacidite dal neon e tramonti degni di "Miami Vice", l'epopea di una gioventù
che vuole vivere senza limiti è la fiera dell'eccesso e del kitsch, perché è il
solo linguaggio espressivo capace di rendere un'idea tanto borderline e
difficile da catturare senza che la grevità oscuri la levità di questo modo di
pensare il cinema. Onore a Korine per aver scelto una strada così impervia.
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[1]Più
volte le ragazze sono riprese mentre parlano al telefono con i genitori e il
montaggio smaschera sempre le loro parole, tenere e affettuose, mostrando i
party sfrenati in cui si divertono e le gesta criminali alle quali partecipano
[3]
Dissacrante l’uso di Vanessa Hudgens e Selena Gomez, attrici-bambini che hanno
costruito la propria immagine sul candore degli show di casa Disney.
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